giovedì 31 luglio 2025

TY SEGALL

 

Ty Segall – Possession

2025 – Drag City

Prima o poi la tentazione di fare un disco “normale” viene a tutti, anche ai più sregolati e imprevedibili artisti. E perché no in fondo, Picasso d’altronde sapeva benissimo dipingere in stile figurativo, e nel cinema persino un autore riconoscibilissimo come David Lynch ha fatto Una storia Vera, film bellissimo, ma che usciva dal suo percorso stilistico, e che probabilmente avrebbe potuto girare anche un altro regista. E così il genio e sregolatezza di Ty Segall, pur non smentendo la sua proverbiale tendenza ad una mole produttiva difficile da seguire con attenzione (Possession arriva dopo che nel 2024 aveva già prodotto due album), per una volta prova a buttare anima e talento in dieci brani che per qualcuno potrebbero sembrare addirittura (“che orrore!”) “mainstream”, o semplicemente ancora legati ad una vecchia idea di “classic rock” che ignora (ma non del tutto) la sua abituale verve da eroe indie.

Ho sempre pensato che, in qualche modo, queste opere siano una sorta di risposta a qualche detrattore che avanza il sospetto che tanta sregolata originalità non sia altro che un modo per mascherare l’incapacità di fare le cose come le fanno tutti, e credo che Segall abbia registrato questi pezzi un po’ con questo pensiero, quasi anche a voler fieramente dimostrare che quello di rimanere un personaggio da undeground carbonaro, per appassionati di weird-folk, non è un condanna, quanto una sua precisa scelta. Quello che magari non si aspettava è che Possession sta paradossalmente piacendo a tutti, e che il fatto di aver fatto un album che può benissimo funzionare anche come musica da viaggio in macchina (secondo “orrore!”) non solo non gli sta facendo perdere l’affezionata fan-base, ma sta conquistando qualche adepto fino ad oggi scettico nei suoi confronti.

Possession di fatto è un bel disco, con chitarre e fiati in gran spolvero, ma soprattutto un largo uso di cori, il che fin dall’iniziale Shoplifter fa ricordare davvero le migliori opere di Todd Rundgren, sospese tra perizia tecnica da one-man band di studio, piglio da rocker, e melodie vocali molto elaborate e spesso decisamente radiofoniche e pop. Ci sono variazioni sul tema (gli archi di Buildings, l’aura da prog quasi alla Steven Wilson di Hotel), ma fondamentalmente Possession è un disco che, fin dalla title-track scritta dal collaboratore Matt Yoka, (bello anche il video), si fa apprezzare per avere dalla sua parte un pugno di buonissime canzoni, da Skirts of Heaven con le sue chitarre in evidenza, alle conclusive Alive e Another California Song, fino al primo singolo Fantastic Tomb. Sono certo che Segall tornerà a offrire produzioni fuori dagli schemi, ma anche questa sua versione “public-friendly” non ci dispiace affatto.

Nicola Gervasini

lunedì 21 luglio 2025

Ivan Francesco Ballerini

 

 

Ivan Francesco Ballerini

La guerra è finita

RadiciMusic Records

File Under:  War is not the answer

 

Impossibile rimanere impassibili davanti a questi tempi di guerra nel mondo, soprattutto se si è un sensibile cantautore, ma le canzoni di La guerra è finita, quarto album di Ivan Francesco Ballerini sono nate anche prima degli scenari più noti nei nostri giorni, quasi a dire che la speranza di pace è qualcosa che non ha bisogno di una guerra per sentire il bisogno di esprimersi. Autore toscano di impostazione classicamente folk, Ballerini ha iniziato a pubblicare album solo dal 2019 con l’esordio di Cavallo Pazzo, e si presenta ora con quello che potremmo quasi definire un concept album, sebbene il filo conduttore che lega i brani sia il tema e non i protagonisti. Che sono il soldato che al fronte scrive all’amata della title-track (con la bella voce di Lisa Buralli a supporto), oppure la studentessa che spera di poter finire gli studi nonostante i bombardamenti (Tra Bombe e Distruzione). Altrove Ballerini si ispira alla letteratura (Linea d’Ombra ovviamente si rifà a Joseph Conrad, mentre Vestire di Parole ad un racconto di Primo Levi), o semplicemente parla di amore di coppia (Tra le dita e Perché Mai) o universale (Sulle Pietre del Mondo) come unica arma contro i conflitti dell’umanità. Chiude (così come apriva in un breve strumentale) il brano Il Mondo Aspetta Te, brano in cui un artigiano si mette al lavoro per ricostruire il tutto a guerra finita, un chiaro messaggio di speranza finale per un album che comunque non assume mai toni troppo cupi o pessimistici, nonostante il tema trattato. Nell’album suonano molti musicisti, con particolare peso della chitarra e degli arrangiamenti di Giancarlo Capo. In mezzo a tante voci bellicose in ogni parte dl globo, serve ancora che il folk faccia la parte di un grido che sia sempre ostinatamente per la pace.

Nicola Gervasini

 

martedì 15 luglio 2025

Lavinia Blackwall

 


 Lavinia Blackwall

The Making

(The Barne Society, 2025)

File Under: What She Did On Her Holidays

Nel fenomeno di rinascita e riscoperta del folk britannico negli anni 2000, gli scozzesi Trembling Bells hanno giocato un ruolo importante. Cinque album pubblicati tra il 2008 e il 2018, in cui hanno rimescolato le carte del genere, più un EP e un disco in collaborazione con Bonnie Prince Billy (The Marble Downs del 2012), che testimoniava proprio la stretta parentela tra l’indie-folk di questi decenni e la musica tradizionale di marca Fairport Convention e dintorni. Nel 2018 però la vocalist della band, Lavinia Blackwall, ha annunciato di lasciare la band, di fatto sciogliendola (ad oggi infatti la sigla pare aver chiuso i battenti), e varando così una carriera solista con l’album Muggington Lane End del 2020. Ci sono voluti cinque anni per avere The Making, il secondo album, anni difficili e dolorosi di ritirata riflessione e introspezione, grazie ai quali ha prodotto quello che pare proprio uno di quei dischi che cambiano le sorti di una carriera. La Blackwall, infatti, aiutata del produttore Marco Rea, ha lavorato per lungo tempo su 10 brani che assorbono come una spugna moltissime influenze e diverse sonorità, pur non abbandonando il proprio stile, che ovviamene le porta paragoni con Sandy Danny o Jacqui McShee dei Pentangle.

E se l’iniziale Keep Me Away From The Dark è ancorata ad uno stile classico, l’arioso mid-tempo di The Damage We Have Done riesce a far confluire in un colpo solo un incedere alla Byrds con una melodia da dischi di Kate e Anna McGarrigle. Ma l’album gioca di varietà con la piano-ballad Scarlett Fever (qui sì che aleggia lo spirito della Denny), coi fiati che giocano sulla melodia di My Hopes Are Mine (dove torna sulle ragioni della fine dei Trembling Bells, aiutata tra l’altro dalla voce di “Miss Moonlight Shadow” Maggie Reilly), o l’incedere brit-pop di Morning To Remember (lei stessa cita i Kinks come influenza, ma io direi quasi più i Blur più classici). La Blackwall non rinuncia mai al suo vocalizzo alto e impostato (The Making), mostrando però le proprie doti e possibilità vocali con parsimonia, e sempre con rispetto al tema della canzone (bravissima nell’emotivamente sofferte We All Get Lost e The Art of Leaving, tra i brani più memorabili della raccolta).

Il finale non perde colpi con The Will To Be Wild e una eterea e riflessiva Sisters In Line in cui tornano protagonisti i fiati di Ross McRae e Richard Merchant. Dopo un esordio in cui aveva forse voluto metterci troppo, Lavinia Blackwall centra il bersaglio con un album che non perde semplicità nonostante gli arrangiamenti ben studiati, e soprattutto con dieci brani che spiegano perché si possa ancora essere moderni partendo dalla tradizione.

Nicola Gervasini

Robert Forster

 

Robert Forster

Strawberries

(2025, Tapete Records)

File Under : Strawberries fields forever

Tra i sopravvissuti all’incredibile e forse irripetibile calderone di grandi artisti usciti dalla scena australiana di fine anni settanta, l’ex Go.Betweens Robert Forster è forse uno di quelli più in credito con la fortuna (ma questa ormai è una banalità anche ricordarlo trattandosi di personaggi così di nicchia), ma anche uno di quelli che ancora sta tenendo un ritmo discografico qualitativamente altissimo. Se non conoscete la sua carriera solista, iniziata nel 1990 ancora in parallelo all’attività della band, recuperate lo splendido The Evangelist del 2008, ma in ogni caso anche i titoli più recenti valgono la pena. Questo Strawberries in particolare esce a poca distanza da The Candle and the Flame, disco piuttosto sofferto segnato dalla contemporanea morte della madre e dalla diagnosi di una grave malattia alla moglie Karin Bäumler, cercando però con tutta evidenza di esserne il capitolo di ritorno alla vita.

Ne esce di fatto un disco completamente diverso, non voglio dire “allegro” perché comunque questi racconti letterari, apparentemente meno autobiografici, sono pregni di disagi di varia natura, ma sicuramente positivo nel reagire alle avversità della vita. Ne è testimonianza anche il video che accompagna la title-track, che vede lui e una rigenerata moglie duettare nella loro cucina in una splendida pop-song, con tanto di fiati e citazioni dei Lovin Spoonful, video che testimonia la semplicità del personaggio e del suo messaggio artistico, ma anche la complessità delle sue trame da pop-rock d’altri tempi.  Ma è tutto il disco che vola altissimo fin dalla strana storia d’amore di Tell’It Back To Me, e passando per un numero da pub-rock degno del miglior Nick Lowe come Good To Cry, a quel lungo e splendido tour de force di folk-pop all’australiana (siamo in zona Paul Kelly quasi) che è Breakfast on The Train, Forster sembra aver trovato con questo disco (solo 8 brani, ma bastano) la chiusura del cerchio di una lunga carriera.

Nella seconda parte si viaggia un po’ più sul sicuro con brani che tornano a citare non poco il passato, come l’intro pianistica alla John Cale di Such A Shame, o come nelle atmosfere da rock anni 70 di All Of The Time. Ma è nel finale di Diamonds che le carte vengono rimescolate, introducendo un sax quasi free-jazz in un brano che ha ben altro spirito rispetto al clima più scanzonato del brano precedente (Foolish I Know), nel quale quasi veste i panni dell’elegante jazz-crooner. Un gran bel finale per un disco vario e alquanto ispirato, e soprattutto capace di usare l’ironia (leggetevi il testo di Foolish I Know) per tagliare quella soffocante patina di dolore che aveva reso non facilissimo da digerire il suo album precedente. E solo i grandi artisti hanno la capacità di cambiare registro rimanendo comunque sé stessi,  e di non perdere mai le proprie radici musicali fatte di pane e Kinks, ma da saperle riscrivere senza mai apparire sterilmente citazionista.

 

Nicola Gervasini

lunedì 7 luglio 2025

BOB MOULD

 

Bob Mould

Here We Go Crazy

(2025, Granary Music)

File Under: These Important Songs

 

Bob Mould è un intoccabile. Vale a dire uno di quei nomi su cui si è sempre tutti d’accordo, che nessuno oserebbe mai contestare, al riparo pure dalle manie di insensato revisionismo critico verso i mostri sacri che ha imperato in questi anni di discussioni musicali nei social. Non si ebbe il coraggio di metterlo in discussione neppure quando nel 2002 con Modulate azzardò un abbraccio all’elettronica, non poi così memorabile col senno di poi, ma è indubbio che il suo nome è sempre in cima quando si deve portare un esempio di integrità artistica e qualità costantemente alta. Ma da 15 anni a questa parte serpeggia tra le righe dei fans la sensazione che si sia un po’ arenato su un modello di canzone (che resta poi lo stesso degli anni con gli Hüsker Dü), senza più porsi il problema di nuovi azzardi.

Ho fatto una prova empirica, e ho ascoltato per la prima volta questo nuovo Here We Go Crazy subito dopo aver riascoltato Silver Age del 2012, considerando che in mezzo ci sono altri 4 album che hanno mantenuto bene o male lo stesso registro di suoni, ed effettivamente è stato difficile capire dove finisse il primo e dove iniziasse il secondo, se non per un leggero calo di ritmo e ferocia sonora evidenziato dal nuovo capitolo.

Si potrebbe quindi davvero ipotizzare che Mould faccia ormai da tempo lo stesso disco, sensazione amplificata dal fatto che di fatto stiamo parlando di album registrati dalla stessa band e sempre con la stessa “ratio” produttiva, e cioè con la sua chitarra iper-amplificata in primissimo piano, e la sezione ritmica di  Jason Narducy (basso) e Jon Wurster (batteria), sempre loro ormai da anni, che lo segue con la medesima veemenza ma sempre un po’ in sottofondo nel mix finale.

E sebbene qui brani come la title-track o Breathing Room si assestino su un ritmo più riflessivo e autoriale e meno da garage-rock, e in Lost Or Stolen riaffiori persino una chitarra acustica (ma nulla a che vedere con il suono elettro-acustico che aveva reso il suo esordio solista Workbook uno di suoi album più amati nel tempo), la solfa non cambia. Ma, e il “Ma” fortunatamente c’è, il finale di questa premessa non è un superficiale “ragazzi, ammettiamolo, Mould ormai rimesta la stessa minestra da anni”, perché se lo consideriamo un numero Uno del mondo del rock alternativo (o underground, o metteteci voi la definizione che ancora ritenete valida nel 2025), è perché Mould non ha mai smesso di essere un Autore, e pure uno dei migliori.

Immaginate ad esempio se Leonard Cohen avesse fatto a tempo registrare una sua versione di Hard to Get, o pensate se Joe Cocker avesse notato il potenziale da mainstream-rock radiofonico di una When The Heart is Broken, e davvero non si farebbe fatica a farlo. E questo funziona perché i brani di Mould sono ancora ottimi innesti di ottimi testi (qui più nostalgici del solito), e melodie “quasi-pop” che potrebbero vivere benissimo anche se confezionati con una carta da pacchi diversa da quella che lui usa ormai da anni. Here We Go Crazy è solo il nuovo capitolo di un lungo libro che forse potrebbe anche cominciare a stancare qualcuno, perché poi sì, probabilmente lui non cambia le impostazioni dell’amplificatore della propria chitarra da anni, e credo che se ne guardi anche bene dal farlo, ma abbiamo 11 nuove canzoni di Bob Mould, e non è mica facile trovarne di altrettanto belle anche nel 2025.

 

Nicola Gervasini

MATTHEW DUNN

  Matthew Dunn Love Raiders Cosmic Range Records   Ogni era discografica ha le sue esigenze, e se negli anni novanta l‘entusiasmo pe...