domenica 19 gennaio 2020

PAULA COLE

Chi si ricorda di Paula Cole?

675 Records – 2019
Era il 1996, e, tra i tanti nuovi nomi che esordivano in quegli anni, quello di Paula Cole parve subito importante. In quell’anno il suo secondo album This Fire divenne uno dei besteller in USA grazie a singoli come Where Have All the Cowboys Gone? (“volevo fare una canzone ironica come quelle degli XTC ma dal punto di vista femminile” la descrisse lei) e soprattutto I Don’t Want to Wait, sigla del fortunato serial televisivo Dawson’s Creek. Riascoltato oggi This Fire conserva il suo fascino di opera che univa una produzione alla Peter Gabriel (non a caso ospite nel disco), la lezione di Kate Bush, e una certa grinta alla Alanis Morissette.

Una carriera a fasi alterne

Il momento di Paula Cole però durò poco. Il disco successivo, Amen,  ci mise troppo ad uscire per sfruttare il momento (era il 1999), e fu un mezzo flop che la fece uscire subito dalle luci della ribalta, con conseguente ritiro per maternità fino al 2007. In questi ultimi 12 anni la Cole ha ripreso la sua carriera pubblicando altri 5 album che non hanno però riacceso troppo l’interesse verso di lei. Complici anche le molte aperture al mondo del jazz non proprio in linea con le mode del momento. Per questo si accoglie con piacere questo Revolution. Album che, diciamolo subito, la rivede molto più convintamente riprendere il discorso interrotto anni fa dal punto di vista stilistico.

Paula Cole – Revolution

Dopo una suggestiva Intro: Revolution (Is A State Of Mind) in cui il pianista jazz Bob Thompson recita un discorso di Martin Luther King, la Cole offre un disco vario e molto ben prodotto, chiuso in crescendo dal lungo reggae di Universal Emphaty e dalla piano-song alla Tori Amos Dhammapada. Subito invece arriva il riuscito gospel-blues di Shake The Sky, che è anche l’occasione per assaporare la bravura di una band con grandi nomi in lista come Nona Hendryx e Meshell Ndegeocello. E che vede Ross Gallagher al basso, gli esperti Max Weinstein e Jay Bellerose alla batteria e il chitarrista Chris Bruce adoperarsi anche come produttore.

Il disco ha una parte iniziale con brani intensi e molto personali come Blues in Gray (dedicata alla storia della nonna dell’artista) e la lunga Silent (sorta di autobiografia in prosa), prima che Go On riporti nelle casse una suadente pop-song che ricorda molto la Sarah McLachlan degli anni 90, e di fatto scopriamo essere stata scritta nel 1993, ma con parole cambiate in seguito al suo divorzio. Si finisce con una più folk All Of Nothing che addirittura richiama un po’ la Joni Mitchell di inizio carriera, la parlata 7 Deadly Sins, fino ad arrivare alla cover di The Ecology (Mercy Mercy Me) di Marvin Gaye.

Revolution: bel ritorno per un’artista impegnata qual è Paula Cole

La versione in vinile del disco contiene anche un singolo uscito in primavera, Hope Is Everywhere, canzone remixata in chiave dance (lei stessa la definisce “prog-disco”) pubblicata per sostenere la comunità LGBT che col disco c’entra poco stilisticamente, ma chiude il cerchio per definire una artista magari non sempre originalissima, ma fieramente impegnata a portare avanti le sue lotte politiche (il suo silenzio negli anni zero fu interrotto solo per un singolo polemico contro l’intervento in Iraq di Bush Jr) e umane con rinnovata convinzione.

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