Governo in 280 caratteri
I tremendi disordini che stanno devastando gli Stati Uniti
dopo l’omicidio di George Floyd da parte di una pattuglia della polizia stanno
mettendo in secondo piano un fatto certamente meno devastante, ma certo da non sottovalutare.
Poco prima che scoppiasse la rivolta infatti il presidente Trump si stava
rendendo protagonista di una polemica con Twitter, la piattaforma social che
lui stesso predilige come primario strumento di comunicazione. Il social,
proprietà di Jack Dorsey, si è reso “colpevole” di aver segnalato come
possibile fake news un tweet del Presidente, invitando gli utenti a
verificare la notizia. Non lo ha cancellato (come teoricamente potrebbe), ma ne
ha messo pubblicamente in evidenza la possibile falsità.
Ovvia la veemente reazione di Trump, che è stata anche molto
pratica, con una ordinanza (ancora non effettiva) di modifica della Section 230
del Telecommunications Act del 1996, grazie al quale le aziende dei social
(quindi anche Facebook, che dalla polemica ha tentato di smarcarsi) non sono responsabili
direttamente per quanto pubblicato dai lor utenti. La guerra legale non è
finita qui, perché da una parte Trump si appella all’appunto inappellabile
principio di libertà di parola della costituzione americana, ma dall’altra
Twitter è una azienda privata che ha il diritto di gestire la propria
piattaforma secondo proprie regole. Per esempio, potrebbe anche cancellare
l’account di Trump, se ne ha le giuste motivazioni di violazione della propria
policy di comportamento, e immaginate le conseguenze di un simile atto così
drastico.
Ma quello che ci interessa è notare come questo fatto, finisca
come finisca, ha reso evidente l’incredibile paradosso di una comunicazione
istituzionale demandata a piattaforme regolate da privati. In altre parole,
Jack Dorsey è proprietario della comunicazione di tutti i nostri governanti
(perché ovviamente la cosa succede in Italia come in gran parte del resto del
mondo), e anche in piena emergenza Covid-19 ci siamo resi conto come comunicazioni
anche importanti alla popolazione siano state rese pubbliche non attraverso
canali istituzionali, ma attraverso i social.
Dove, ovviamente, la comunicazione istituzionale, che per
sua definizione è unidirezionale e non necessita di una replica, finisce invece
nel calderone di commenti, battute, sfottò, volgarità, insulti e odio che anima
già normalmente l’arena social. La speranza dunque è che se pure Trump si renderà
conto che forse passare solo da Twitter sia un errore, questo possa avvenire
anche da noi.
Personalmente penso che sarebbe corretto vietare l’uso dei
social a chiunque abbia un ruolo istituzionale, che ha ben altri modi e
strumenti per farlo. Auspico insomma che la comunicazione governativa e quella
politica (quella sì che può anche tuffarsi nel mare di commenti e polemiche dei
social, è la sua natura) divengano due cose diverse e ben separate, un’utopia
forse, ma lasciatemi almeno sperare che quanto sta accadendo oltreoceano possa
spingerci verso quella direzione.
Nicola Gervasini