mercoledì 30 dicembre 2020

ODLA

 

Odla

Oltre il cielo alberatO

[Snowdonia 2020]

 File Under: Cantautori e detta schiera

Snowdonia.bandcamp.com

di Nicola Gervasini


Giovane e poliedrico (ha al suo attivo anche un libro di poesie), il trentino Odla approda alla Snowdonia (l’etichetta dei Maisie) beneficiando della loro passione per i progetti musicali nati con spirito letterario (e spesso accompagnanti da veri e propri libri) per il suo primo album Oltre il Cielo Alberato. Si tratta di un concept che prova a tracciare una linea parallela tra la storia personale dell’artista, fatta di tutte le problematiche in cui può facilmente incappare un ventisettenne italiano di oggi (depressione, delusioni amorose, frustrazione da lavoro precario e poca fiducia nel futuro) e la vita (questa invece immaginaria) di Hassan, bambino in perenne fuga dalla guerra, per cui la speranza rappresenta non più un lusso, ma una necessità. Nessun intento politico o polemico però nel confronto, ma solo una ricerca di un tratto comune esistenziale da esprimere nei versi di undici brani che si rifanno a quella nuova tradizione di cantautorato italiano con De Andrè e Fossati nel cuore, comunque figlia della storia scena indipendente italiana di questi anni 2000. Il suono, realizzato in collaborazione con il produttore roveretano V.Edo, è scarno e acustico, ma non mancano i diversivi come la quasi-tarantella di I Pescatori di Lete, impreziosita dal mandolino siciliano di Davide Prezzo. Diviso tra pezzi lenti e oscuri come Il Sogno di Una Madre ad altri anche più scanzonati e cantabili come Al Fuoco di Luna, Odla lavora bene anche sugli arrangiamenti, da quelli più da folk psichedelico anni 60 come All’Alba Una Terra a quelli con taglio più da canzone popolare (San Giuseppe da Copertino), anche se ovunque la base resta il suo arpeggio alla Leonard Cohen prima maniera.

domenica 27 dicembre 2020

NERO KANE

 

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Made in Italy   cose di casa nostra


Nero Kane

Tales of Faith and Lunacy

[BloodRock Records 2020]

 File Under: spiritual trip

nerokane.com

di Nicola Gervasini

Non è mai finito il viaggio dell’italiano Nero Kane attraverso i misteri della provincia americana, e se con il precedente Love In A Dying World, che vi avevamo presentato due anni fa, il viaggio attraversava i deserti americani anche come colonna sonora di un interessante cortometraggio, stavolta la tappa della sua profonda ricerca spirituale, pur partendo comunque da una tradizione d’oltreoceano, approda nell’Europa antica dei mistici cristiani (Metchild) e delle cupe atmosfere medievali che l’inserimento degli archi (il violinista è Nicola Manzan dei Bologna Violenta) ha portato nella sua musica. In ogni caso la formula resta quel suo tipico e originalissimo approccio decisamente psichedelico alla materia folk, qualcosa che ha rimandi all’America raccontata cinquant’anni fa dai Pearl Before Swine, ma venati della religiosità pagana dei testi, di vere e proprie preghiere gospel come Mary Of Silence e Magdalene, e passati al setaccio poi dall’oscurità del country di Johnny Cash (I Believe e Lost Was The Road) o dell’arte del racconto noir in musica creato da Nick Cave e poi da PJ Harvey nel corso del tempo (Angelene’s Desert). Lo accompagna, come al solito, la poliedrica Samantha Stella alla voce e alle tastiere, che, oltre ad essere l’autrice di alcuni dei testi, è anche la regista dei suoi suggestivi video, sempre in bilico tra sacro e profano. Lo è ad esempio anche il bianco e nero scelto per il lancio del nuovo singolo Lord Won’t Come In, dichiarato omaggio al regista Bela Tarr. In ogni caso ancora una volta un prodotto multimediale che andrebbe apprezzato anche nelle loro performances dal vivo. Il disco, prodotto da Matt Bordin, è distribuito anche nelle versioni in vinile (Nasoni Records) e musicassetta (Anacortes Records).


mercoledì 23 dicembre 2020

ADRIANNE LENKER

 


  

 

Adrianne Lenker
Songs/ Instrumentals
[4AD 2020]

 Sulla rete: adriannelenker.com

 File Under: The Massachusetts campfire tapes


di Nicola Gervasini (26/11/2020)


Il 2019 è stato senza dubbio l’anno dei Big Thief, capaci di finire in tutte le classifiche annuali con ben due dischi realizzati a pochi mesi di distanza (U.F.O.F. e Two Hands), due facce di una band che, pur non inventandosi nulla, ha portato una ventata di freschezza in quel territorio a metà tra musica delle radici e freak-music degli anni 2000 (che a chiamarla “indie” ormai si diventa anche troppo generici). Il 23 febbraio 2020 ero uno dei tanti nuovi fans che attendevano di vederli sul palco a Milano, anche per testare il loro vero spessore, ma quello fu proprio il primissimo concerto a dover essere annullato per la scoperta dei primi malati di Covid19 a Codogno, per cui dovremo attendere perlomeno il prossimo anno per riprovarci.

Per loro il 2020 doveva essere un anno di concerti e pause di riflessione, ma vista la forzata inattività, la cantante Adrianne Lenker ha trovato tempo per registrare un doppio album. Innanzitutto va ricordato che la carriera solista della Lenker esiste fin dal 2005, e che quando ha dato vita ai Big Thief nel 2015 aveva già dieci anni di vita da musicista professionista sulle spalle, con all’attivo due album autoprodotti, e un vero e proprio esordio (Hours Were the Birds del 2014) uscito per la Saddle Creek, la stessa etichetta che ha poi pubblicato nel 2018 Abysskiss, album che era rimasto nel cassetto proprio per gli impegni con i Big Thief. Songs/Instrumentals è composto da due dischi teoricamente indipendenti, nati in un volontario isolamento in una casetta in Massachusetts, con la Lenker che suona e canta in solitaria e con una produzione decisamente lo-fi. Le undici canzoni che formano il primo disco sono quanto di più aderente alla tradizione delle folksinger di fine anni 60/primi 70, e penso sia a quelle più classiche come Anne Briggs che alle più coraggiose come Judee Sill. Addirittura, il singolo Zombie Girl ha una melodia da vera folks-song da Greenwich Village (e ricorda vagamente Mr Tambourine Man).

Volutamente vintage è anche il modo di registrare la voce, con quella lontananza tipica delle registrazioni di un tempo, in verità risultato di una registrazione fatta con un walkman e un missaggio gestito in casa con un registratore a otto piste. Di suo Adrianne ci mette una scrittura con testi molto personali, piccoli flussi di coscienza di una donna chiusa in ritiro con il partner, che ricordano non poco la poetica della prima Joni Mitchell. Decisamente più ostico, ma a suo modo molto affascinante, il disco di strumentali, che sono solo due lunghi brani (Music for Indigo e Mostly Chimes) nati per trovare un perfetto connubio tra la musica prodotta nel voluto esilio e la natura che circondava la casa, che si fa sentire tra fruscii e uccellini nel mezzo di lunghe improvvisazioni chitarristiche. Ovvio che il risultato è qualcosa che necessita una vostra predisposizione mentale alla riflessione e a una musica da ascoltare a occhi chiusi con le cuffie per non perdersi nulla di un mondo lontano.

Mancano qui le strutture complesse create con i Bg Thief, ma per quelle attendiamo volentieri, ora forse è il caso di fare tutti un po’ silenzio, e questo disco è proprio quello che ci vuole per zittirci tutti in questo mare di parole inutili che questo anno disgraziato ci ha portato.


domenica 20 dicembre 2020

DEAD FAMOUS PEOPLE

 


  

 

Dead Famous People
Harry
[Fire records 2020]

 Sulla rete: deadfamouspeoplefire.bandcamp.com

 File Under: Old Zealand


di Nicola Gervasini (12/11/2020)


La storia dei Dead Famous People ha origini lontane, addirittura nel 1986, quando ad Aukland, in Nuova Zelanda. Dons Savage e Elizabeth (Biddy) Leyland fondarono il quintetto. Qualcuno magari si ricorda la loro versione di True Love Leaves No Traces di Leonard Cohen contenuta in uno dei primi tribute-records dedicati al canadese (I’m Your Fan del 1991), oppure il loro disco di esordio del 1989 Arriving Late in Torn and Filthy Jeans, fortemente voluto da Billy Bragg, che lo fece uscire per la sua Utility. Harry è però soltanto il terzo album della band (il secondo, Secret Girls Business, uscì nel 2002), perché i due negli anni hanno avuto tante pause, ma sono stati comunque semore attivi, anche con collaborazioni di rango (la voce di Dons Savage si può sentire in alcuni brani dei Saint Etienne e dei Chills).

Sarà forse per questo che Harry, disco realizzato grazie alla Fire Records, suona davvero come un freschissimo disco di power-pop degli anni 80, in cui la scuola Elvis Costello (l’organetto che segna l’iniziale Looking At Girls è tutto suo, e Dog addirittura potrebbe appartenere a Graham Parker) e quella di tutto il college-rock di quel decennio, si fonde con lo spirito indie degli anni 2000. E così i fiati e campanelli di perfette pop-song come Safe and Sound Turn On The Light fanno ben capire come si è arrivati nel tempo a certe ariose aperture pop di Belle And Sebastien, così come il piglio puramente pub-rock di Goddes of Chill ricorda quanto la filosofia della chitarra jingle-jangle resti la colonna portante di tutto un mondo indie-pop. Ovvio che nel 2020 sia tutto un “già sentito”, perché poi forse basta prendere un disco dei Sundays dei primi anni 90 o degli Shins nei 2000 per ritrovare gli stessi sapori, ma qui abbiamo dei veterani che semplicemente cercano di riprendersi qualche onore perso per strada in una carriera a singhiozzo.

E allora prendete una ballata come Dead Birds Eye, immersa in una costruzione armonica fatta di cori, organi e chitarre e un basso che governa il tutto, e vi rendete conto di quando l’arte dell’arrangiamento pop, al limite del wall of sound di Phil Spector, è qualcosa che pochi sanno maneggiare con destrezza, evitando quindi lo stucchevole. Harry è un disco che prende fin dal primo ascolto, non cerca di complicarsi la vita con canzoni troppo intricate (Groovy Girl sa di brano scritto in due minuti, ma funziona alla grande forse proprio per quello), ma ha comunque sostanza anche nella scrittura (l’intensa The Great Unknown con il suo cambio di passo improvviso è veramente un piccolo manuale in tal senso), arrivando anche con la title-track finale a toccare corde melodiche da pop anni 80 alla Aztec Camera o Prefab Sprout.

33 minuti il minutaggio finale, non uno di troppo, e se non è Harry il disco che cambia le sorti di questo infausto 2020, sicuramente lo rende più allegro e sopportabile.


martedì 15 dicembre 2020

HUGO RACE

 


  

 

Hugo Race and The True Spirit
Star Birth/ Star Death
[Gusstaff records 2020]

 Sulla rete: hugoracemusic.com

 File Under: We Shall Overcome


di Nicola Gervasini (02/11/2020)


Artista da sempre votato a una lunga serie di progetti e collaborazioni, Hugo Race torna dopo cinque anni a riunire la sua band principale, i True Spirits, dopo i grandi onori ricevuti dall’ottimo The Spirit del 2015. È singolare notare che se il loro esordio arrivò negli anni della caduta del Muro di Berlino, forse il momento più permeato di ottimismo sul futuro della storia del secolo scorso, questa loro quindicesima fatica, intitolata Star Birth (che esce direttamente con un cd di bonus tracks strumentali intitolato Star Death), nasce invece in uno dei momenti più cupi, e cioè tra gli incendi apocalittici che hanno devastato l’Australia e l’esplosione della pandemia del Covid-19.

Registrato a Melbourne tra il 2019 e il 2020 nel pieno di un inferno, il disco riflette quindi l’inevitabile pessimismo suggerito dalla situazione. Sospeso a metà tra le sonorità che da sempre lo caratterizzano, nel guado tra il dark-roots dei Walkabouts e ovviamente la scuola Nick Cave & The Bad Seeds da cui proviene, l’album ingloba anche tutte le altre strade intraprese, siano esse il side-project dei Dirtmusic creato con Chris Eckman, o la curiosa rilettura del songbook di John Lee Hooker creata tre anni fa con l’artista molisano Michelangelo Russo, ormai considerato parte integrante del combo, e che incide non poco nel nuovo suono della band con le sue sperimentazioni elettroniche. Il primo brano, Can’t Make This Up, è una sorta di lugubre rap dal testo oscuro ma con un finale positivo (We did overcome…), e se 2dead2feel è un brano che rispetta in pieno la sua marca stilistica, la ballata Darkside è un superbo testo che ricorda molto le sue cose più roots-oriented fatte con i Fatalists (recuperato l’album dello scorso anno Taken by the Dream).

Embryo riporta invece il discorso su binari più sperimentali, una danza indiavolata che viene stoppata dall’evocativa Heavenly Bodies, che fa da introduzione ad una Only Money che pare uno dei piccoli pensieri a ruota libera di Leonard Cohen, e presenta un arrangiamento decisamente accattivante, in cui confluiscono un po’ tutti i sapori della sua musica. Holy Ghost è forse il brano centrale come testo (da qui arriva anche il titolo del disco), con una visione che parte alquanto negativa (“lo spettacolo non può andare avanti, il Sole ululò alla Luna, un nuovo giorno non verrà”). Il breve spoken United riflette invece sulla possibilità di trovare un modo comune ad uscire dalla tragedia, citando il noto motto “United we stand, Divided we fall” che fu ripreso anche da Winston Chuchill, una piccola introduzione alla più minacciosa Expendable (”ehi fratelli, siamo tutti sacrificabili? Non c'è nessun paradiso non c'è nessun inferno, tutto quello che abbiamo è qui e ora, gente”), brano che si congiunge alla perfezione agli ultimi due per atmosfera e ritmo (The Rapture e Where Does It End).

Il secondo cd Star Death è invece una sorta di fotografia sul work in progress dei brani (ma con qualche titolo diverso), con pieno spazio alle velleità da kraut-rock del duo Michelangelo Russo e Nico Mansy. “In modo silenzioso combatto le mie piccole guerre, in cento modi muoio un po 'di più” canta in Everyday Hugo Race, autore di un disco solo apparentemente soffocante, ma intriso di una fiducia che si fa spesso semplice ricerca di una via di uscita e di una speranza.


domenica 13 dicembre 2020

JOAN OSBORNE

 


  

 

Joan Osborne
Trouble and Strife
[Womanly Hips/ Goodfellas 2020]

 Sulla rete: joanosborne.com

 File Under: There’s a Riot Going On


di Nicola Gervasini (07/10/2020)


Ho conservato grande stima per Joan Osborne e la sua storia artistica. Certamente il mondo la ricorderà sempre per One of Us, l’hit scritta da Eric Bazilian degli Hooters che nel 1995 fece vendere quasi 4 milioni di copie dell’album Relish. Che sì, resta il suo disco più importante e memorabile, ma la storia dice che dopo averci messo cinque anni a produrre un seguito troppo schiavo delle leggi di mercato come era Righteous Love, la Osborne ha vissuto gli anni 2000 suonando la musica che più le piaceva, mantenendo un livello comunque sempre più che dignitoso.

Trouble and Strife
 (letteralmente significa “problema e conflitto”, ma è una espressione idiomatica inglese che si usa per definire, in maniera non del tutto “politically correct”, una moglie particolarmente arcigna e rompiscatole) è il suo dodicesimo album, e arriva a sei anni di distanza dall’ultimo disco scritto più che altro di suo pugno (il quasi ignorato dai più Love and Hate del 2014), con l’arduo compito di capitalizzare il rinnovato interesse nei suoi confronti suscitato da Songs of Bob Dylan del 2017, cover-record che ottenne il miracolo di farsi notare pur presentando una materia certo non innovativa come un disco dedicato a Mr. Zimmerman. La stima di cui sopra deriva dal fatto che mai nella sua carriera ha ceduto alla tentazione di rifare un nuovo Relish, ma dopo essere stata un po’ esclusa dal grande giro, ha fatto scelte coraggiose.

E coraggioso lo è sicuramente Trouble and Strife, album che affronta con anche una certa tagliente ferocia argomenti di politica e crisi sociale del mondo americano a suon di new soul (Take It Any Way I Can Get It) e funky (What’s That You Say), ma non solo. Musicalmente il disco infatti è un collage esattamente come la sua copertina, in cui elementi blues (Hands Off), soul-pop alla Dusty Springfield come Never Get Tired (Of Loving You), con i suoi sintetizzatori vintage, la puramente dylaniana title-track, o classicissime black-ballads come Whole Wide World, convivono alla perfezione. Certo, non aspettatevi da Joan il colpo di genio a sorpresa, lei è soprattutto una interprete che si cimenta nella scrittura con passione e una certa naïveté, ma dopo un ventennio di sonno in termini di dischi “politici”, il fatto che pure un’artista che di certo non si pone come una maestra di pensiero sociale come la Osborne senta il bisogno di fare un disco del genere, la ritengo una cosa positiva nell’ottica di una rinascita del ruolo civile della musica (un indiretto ringraziamento andrebbe forse a Mr. Trump).

Autoprodotto e anche auto-distribuito tramite la sua label personale, il disco si avvale della collaborazione di validi musicisti come il tuttofare Nick Govrick e il tastierista Keith Cotton, oltre all’ormai fidato chitarrista Andrew Carillo.


mercoledì 9 dicembre 2020

DELTA SPIRIT

 


  

 

Delta Spirit
What Is There
[New West 2020]

 Sulla rete: deltaspirit.net

 File Under: Searching for the Spirit


di Nicola Gervasini (29/09/2020)


Più che “seguirli”, i Delta Spirit noi di Rootshighway li “inseguiamo”, a vista e di nascosto, nella speranza di non dover ammettere di aver preso un granchio dieci anni fa. Non che non esistano nella storia parecchi gruppi in grado di fare il buon disco per poi perdersi nel tragico tentativo di fare per forza di meglio, ma con loro abbiamo sicuramente un conto aperto. Era il 2010 quando il loro secondo album, History From Below, ci piacque parecchio, quasi una diversa versione dei My Morning Jacket ancora più vicina ai nuovi linguaggi del mondo indie. Vado a rileggere la recensione che scrissi ai tempi, con un prudente 7,5 che poteva anche essere un 8, e un finale di confronto con Okkervil River e Felice Brothers, band che oggi vantano una lunga ed encomiabile carriera quasi senza passi falsi, al contrario di loro che invece non si sono più ripetuti.

O, peggio, hanno stravolto la loro formula di hippie-music moderna in favore del pop barocco freddo e geometrico degli album Delta Spirit (2012) e Into The Wide (2014). Paradossalmente dischi che hanno avuto anche un certo successo di vendite rispetto ai primi due (il debitto era Ode To Sunshine del 2008), e molti ci assicurano che sul palco la band non aveva perso in capacità di mostrare i mille colori d’una tavolozza musicale nata stilisticamente nella California del Flower Power degli anni Sessanta. Ma evidentemente Matthew Vasquez ha avuto bisogno di ricaricare le pile se è vero che questo quinto album, What Is There, esce a sei anni di distanza dall’ultimo, con un cambio significativo di etichetta che li accasa nella patria della “roots-music-che-vende-ancora-qualche-cosa” della New West. In verità lui non si era fermato (tre album solisti tra il 2016 e il 2019), ma questo nuovo lavoro sembra voler riprendere la dimensione di band-collettivo con i compagni Kelly Winrich Jonathan Jameson, Will McLaren e Brandon Young, e ritrovare lo spirito fresco e naif degli esordi.

Purtroppo il risultato, sebbene veda un encomiabile sforzo compositivo volto a cercare brani che possano risultate interessanti in qualsiasi veste li si presenti (la title-track che chiude l’album, così come le ottime Home Again o Just The Same), è ancora lontano dai migliori auspici. E se la sovraproduzione che rendeva stucchevoli i due dischi precedenti qui fortunatamente viene tenuta a bada, resta però una generale sensazione di suono di “plastica” che non rispetta per nulla quello esibito nei loro concerti. Insomma, What is There sembra cercare la genuinità degli esordi (lo producono loro stessi forse proprio nell’intento di trovarla), ma si continua a barcamenare tra brani un po’ troppo di facile presa come Better Now Lover's Heart e altri semplicemente minori come Can You Ever Forgive Me?. Ne risulta quindi che possiamo continuare a considerare i Delta Spirit un buon gruppo da seguire, se mai potremo vederli dal vivo, ma la cui personalità e originalità si è un po’ persa nella disperata ricerca di un qualcosa che forse non si erano neanche accorti di avere trovato subito al secondo album, e non era una fortuna da buttare così al vento.


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