venerdì 28 febbraio 2025

KIM DEAL

 

Kim Deal - Nobody Loves You More

4AD

Proprio su queste pagine ho recentemente parlato della pesante eredità storica che impedisce di ascoltare i dischi attuali dei Pixies senza il pregiudizio che tanto nulla potrà mai essere come un tempo. Era probabilmente la pura più grande della loro bassista Kim Deal, curiosamente disponibile ad una reunion durata quasi dieci anni dal 2004 al 2013, ma con l’implicito e tacito patto che rimanesse solo una rimpatriata per i concerti e non per nuove canzoni. Per quelle la Deal aveva la sua personale creatura da seguire, i Breeders , e così quando Frank Black volle registrare quello che sarà Indie Cindy, lei lasciò la nave. Non che rifiutasse la nostalgia, visto che All Never nel 2018 era di fatto una reunion dei Breeders originali del 1993, ma è ovvio che il suo interesse fosse ancora quello di non fermarsi, Arriva quindi a sorpresa, ma neanche troppo, il suo vero e proprio esordio solista, questo Nobody Loves You More, strano oggetto fin dalla copertina, che la vede esibirsi su una zattera alla deriva giusto per ribadire che lei vuole fare le cose di testa sua, anche a costo di farle da sola.

Disco solista per modo di dire, perché poi i Breeders più recenti suonano in vari pezzi, rendendo evidente come l’album, registrato anche da Steve Albini finché è rimasto in vita, sia una sorta di patchwork di diverse sessions avute dal 2011 ad oggi. Che è anche la ragione perché più che di un disco unitario, pare una raccolta di “Odds and Sods” (per dirla come gli Who), cioè progetti vari a cui è impossibile dare una cornice unitaria , ma che messi assieme così riescono a trovare la propria collocazione in una tavolozza davvero variopinta. E’ la varietà e il coraggio anche di affrontare stili certo non abituali per lei, sfociando spesso nel mondo cella canzone d’autore come nella title-track infarcita di fiati d’archi, che rende questo Nobody Loves You More un oggetto intrigante e forse il disco migliore che ci si poteva aspettare da una artista in una fase cruciale della sua carriera.

Da episodi di pop elegante (Summerland Key) all’avanguardia rock di Big Ben Beat, sembra che la Deal abbia voluto misurarsi con sfide diverse per dimostrare prima di tutto a sé stessa di essere una artista non riconducibile ad un cliché. Il risultato convince, anche se ovviamente resta la sensazione di saltare un po’ di palo in frasca, tra echi del suo stile abituale come Crystal Breath e di pop-rock da radio airplay come Coast, fino a brani più intimi e oscuri come Are You Mine? e Wish I Was. Potrebbe trattarsi di una prova generale lungamente pensata per una nuova ripartenza, che forse metterà più a fuoco tanti stimoli. Intanto godiamoci un disco comunque persino sofisticato e ammiccante nel suo venire in contro un po’ a tutti i gusti, con la sensazione che da lei potremmo avvero aspettarci ancora qualche sorpresa.

VOTO: 7,5

Nicola Gervasini

giovedì 27 febbraio 2025

Father John Misty

 Father John Misty

Mahashmashana

(Sub Pop/Bella Union, 2024)

File Under: All Included


Le classifiche di fine anno sono uscite ovunque, le recensioni si sono già sprecate, le discussioni si sono già

consumate, e mi accingo a scrivere dell’ultima fatica di mister Josh Tillman nel suo ormai abituale e forse

definitivo alias Father John Misty quando ormai quando ormai già sembra essere stato detto tutto.

Riassumendo, se non conoscete il personaggio per vostro approfondimento personale, il messaggio che vi

potrebbe generalmente arrivare è qualcosa che sta intorno al “ha talento, è talvolta geniale, ma è

sostanzialmente pretenzioso”.

Facciamo un passo indietro allora. 15 anni fa proprio su queste pagine scrivevo del disco Year in the

Kingdom, ottava uscita in pochi anni a nome J Tillman, che “mi piacerebbe così vedere ad esempio J. Tillman

alle prese con un produttore, uno studio di registrazione di primo livello, una strategia discografica e i mille

buoni/cattivi consigli che si aggiravano nei corridoi delle etichette discografiche”. Non avevo idea ai tempi

che anche a lui sarebbe evidentemente piaciuto, visto che dal 2012 non solo ha cambiato nome artistico,

ma da scarno homemade freak-folker (così lo definivo io stesso ai tempi), si è trasformato nell’incarnazione

moderna di Harry Nilsson, tra iper-produzioni kitsch e toni da grandi show. Un percorso in crescendo tra

album belli e complessi, in cui la forma di pop barocco che proprio Nilsson seppe realizzare meglio di tanti

altri, si alimenta di tutto quello che la storia del rock ha poi creato successivamente agli anni 70. Uno sforzo

produttivo enorme che ovviamente gli ha portato in session i produttori che speravo ai tempi (qui lo

affiancano Drew Erikson e Jonathan Wilson).

Mahashmashana è nel bene e nel male il sunto migliore della sua arte. Bene perché conosco pochi artisti

moderni in grado di maneggiare con maestria così tanti elementi (orchestre, fiati, cori, elettronica, melodie

pop, ritmi, testi taglienti e non banali), male perché poi conosco pochi artisti moderni in grado di fare un

grosso pasticcio come la detestabile Screamland, quasi sette minuti di insensato pastone di voci e tastiere,

arrivati dopo che Mental Health già un po’ aveva messo a prova la nostra pazienza. Prendere o lasciare,

negli 8 lunghi brani che compongono questa opera si passa dall’odiarlo ad amarlo (She Cleans Up ad

esempio è perfetta), senza trovare vie di mezzo, accettando che anche un brano che poteva

tranquillamente vivere solo di voce a pochi strumenti come Being You finisca sommerso da violini e sax

suadenti, e sapendo che iniziare un disco con i 9 minuti philspectoriani della title-track è un colpo d’autore,

ma anche una evidente spacconata.

E che dire della magnificenza della quasi disco-dance I Guess Time Just Makes Fools of Us All, dove potete

trovarci tutto, la yacht music, I sax alla Bowie, il Beck più piacione, i Bee Gees volendo. Il finale di Summer’s

Gone sta dalle parti del Billy Joel più ammiccante e romantico, e anche qui pare di vedere il suo sorrisetto

sardonico mentre pensa “voglio vedere tutti quei grandi critici che si sparerebbero piuttosto che ascoltare

un disco di Michael McDonald, sbrodolare lodi per questa cosa”. Insomma, quest’uomo è seriamente

bravo, ma i suoi dischi continuano a suonare anche un po’ come delle serissime prese in giro.

Nicola Gervasini

venerdì 21 febbraio 2025

CURE

 

The Cure

4:13 Dream

 

Scottato dal flop di accoglienza di The Cure del 2004, Robert Smith recupera in squadra il vecchio chitarrista Porl Thompson e con lui rimette mano a vecchie frattaglie lasciate nel cassetto durante gli anni ottanta, aggiungendo tonnellate di nuovo materiale con il chiaro intento di recuperare il tipico Cure-sound. 4:13 Dream nelle sue intenzioni doveva essere un doppio album, con una “pop-side” e una “dark-side”, insomma l’ideale capitolo secondo di Wish come impalcatura, ma alla fine dei 33 brani registrati si optò per pubblicarne solo 13 della prima parte, lasciando poi aperta la strada ad un capitolo due più lento e sognante. Seguito che non vedrà mai luce purtroppo, perché l’album andò anche peggio del suo predecessore, primo loro progetto senza certificazioni di vendita dai tempi carbonari e underground di Pornography. Eppure la lunga iniziale Underneath the Stars faceva ben sperare, ma tra le 12 restanti tracce, tutte in chiave pop alla loro maniera, non c’era nessuna nuova Friday I’m In Love a salvare la baracca, neppure brani come The Only One o The Perfect Boy, che parevano nati col chiaro intento di cercare una nuova hit. Sleep When I’m Dead fu pubblicata come singolo per risvegliare la vecchia fanbase, ma finì solo a rendere evidente come mai fu scartata già ai tempi di The Head On The Door. Il problema  di 4:13 Dream è che non ha nessun coraggio, neppure quello di essere veramente brutto (di fatto lo si ascolta senza troppi malori), ma resta solo lo specchio di una band rimasta senza idee che, con piena evidenza, necessitava di una pausa.

Nicola Gervasini

Elli de Mon

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