The Cure
4:13 Dream
Scottato dal flop di accoglienza di The Cure del 2004, Robert Smith recupera in squadra il vecchio chitarrista Porl Thompson e con lui rimette mano a vecchie frattaglie lasciate nel cassetto durante gli anni ottanta, aggiungendo tonnellate di nuovo materiale con il chiaro intento di recuperare il tipico Cure-sound. 4:13 Dream nelle sue intenzioni doveva essere un doppio album, con una “pop-side” e una “dark-side”, insomma l’ideale capitolo secondo di Wish come impalcatura, ma alla fine dei 33 brani registrati si optò per pubblicarne solo 13 della prima parte, lasciando poi aperta la strada ad un capitolo due più lento e sognante. Seguito che non vedrà mai luce purtroppo, perché l’album andò anche peggio del suo predecessore, primo loro progetto senza certificazioni di vendita dai tempi carbonari e underground di Pornography. Eppure la lunga iniziale Underneath the Stars faceva ben sperare, ma tra le 12 restanti tracce, tutte in chiave pop alla loro maniera, non c’era nessuna nuova Friday I’m In Love a salvare la baracca, neppure brani come The Only One o The Perfect Boy, che parevano nati col chiaro intento di cercare una nuova hit. Sleep When I’m Dead fu pubblicata come singolo per risvegliare la vecchia fanbase, ma finì solo a rendere evidente come mai fu scartata già ai tempi di The Head On The Door. Il problema di 4:13 Dream è che non ha nessun coraggio, neppure quello di essere veramente brutto (di fatto lo si ascolta senza troppi malori), ma resta solo lo specchio di una band rimasta senza idee che, con piena evidenza, necessitava di una pausa.
Nicola Gervasini