lunedì 31 agosto 2009

MAGNOLIA SUMMER - Lines From The Frame


24/06/2009
Rootshighway



Chris Grabau, vocalist, songwriter e chitarrista dei Magnolia Summer, è un artista che ha imparato l'arte della vita comunitaria nelle strade di St. Louis, città in cui da anni respira la stessa aria da rock di periferia dei Bottle Rockets. Con quest'ultimi Grabeau ha condiviso spesso il palco, il chitarrista John Horton e tanti ideali di vita e di musica, tanto da consigliarne caldamente l'ascolto anche nelle note di copertina. E' grazie a questa idea di collegialità musicale che sta alla base del suo background che i Magnolia Summer figurano ufficialmente essere in sette, quando poi, controllando le singole sessions di questo Lines From The Frame (per la cronaca è il terzo album della band), si scopre che solo nella conclusiva Epitaph viene schierata la line-up al completo. I Magnolia Summer sembrano arrivati per ribadire che i suoni e i sapori dell'alt-country degli anni '90 sono tutt'altro che morti, che la provincia americana necessita ancora di un disco assolutamente "Uncle Tupelo-Like" per poter esprimere i propri disagi, o forse semplicemente per cominciare a dare a Fabio Cerbone nuovo materiale per un futuro secondo volume del libro Levelland. Lines From The Frame è un bel disco di genere, assolutamente prevedibile nelle soluzioni musicali, con quel mix di elettrico e acustico, di suadenti "Nashville guitars" intrecciate agli stessi suoni rozzi e rauchi dei dischi dei Bottle Rockets che costituiscono ricetta sicura e consolidata del rock americano. La differenza in questo caso la fanno le canzoni, e lo si intuisce subito al secondo tentativo, quando dopo il breve incipit corale di Like Setting Suns, la lunga Diminished Returns getta subito un maturo e convincente manto di malinconia grazie al bel violino di Kevin Buckley. Sono canzoni che battono lo stesso ritmo del Neil Young più classico (Short Wave Decline), che viaggiano sulle stesse coordinate dei Son Volt epoca Straightaways (l'intensa Birds Without A Wire, impreziosita dalla voce di Kelly Kneiser dei Glossary, altra band di casa Undertow) e che sanno trovare anche ritmi potenti (la batteria di John Baldus picchia forte un ritmo quasi dance in The Wrong Chords) e riff che ricordano molto quanto sentito in tempi recenti dai Whipsaws (To Better Days). La title-track invece sembra cercare linee melodiche può ardite, quasi sulla falsariga dei Wilco di ultima generazione, sicuramente richiamati anche nell'incedere suadente di By Your Side, alla quale manca proprio un elemento dirompente (la chitarra di Nels Cline? qualche diavoleria inventata da Tweedy in studio di registrazione?) per poter entrare di diritto nella serie A, e pure in buona posizione di classifica. Finale con brio con Pulling Phase To Ground prima del nuvoloso finale di Epitaph. Verrebbe da definirlo un disco fuori tempo massimo questo Lines From The Frame, ma siamo poi così sicuri che invece non stia tornando di nuovo il suo tempo? (Nicola Gervasini)

sabato 29 agosto 2009

THE AIRBONE TOXIC EVENT - The Airbone Toxic Event


29/07/2008
Rootshighway

Nel suo libro "Rock, Pop, Jazz e altro" Nick Hornby si domandava se fosse giusto che persone non più giovanissime scrivessero di quel che succede nel rock and roll. Domanda lecita quando si sente un disco come questo esordio degli Airbone Toxic Event, irriverente quintetto di giovani dell'area di Los Angeles che sta mettendo a ferro e fuoco la West Coast. Il loro album è uscito negli Stati Uniti nel 2008, e solo in questi mesi ha visto finalmente la luce anche in Europa (sempre che nell'era del peer to peer in rete questi discorsi possano ancora avere una reale incidenza sulla popolarità di un'artista…). Difficile in questo caso immaginare un quarantenne con la pancetta e tre figli a carico cantare a squarciagola in macchina queste brevi pop-rock-songs che parlano di sbronze, droghe e amori consumati a casa dei genitori di lei durante la loro assenza. Quadri già visti di pura disperazione adolescenziale insomma (Happiness Is Overrated - la felicità è sopravvalutata - recita il baldanzoso singolo) e quant'altro darebbe linfa vitale a qualsiasi diciassettenne dotato di due orecchie e un'anima ancora da spendere e far ardere in fretta.

Eppure questo album ha una maturità rara nascosta tra mille riff di chitarra selvaggi e la propria frenesia di vivere, una saggezza già evidente che deriva forse dalle tante disgrazie sparse nella vita del cantante Mikel Jollett. La buona apertura di Wishing Well infatti mostra già una penna matura, abile nel giocare con le parole, prima di partire in un turbinio di brani veloci (o proprio travolgenti, come Papillon), tra punk (This Is Nowhere), rock americano (Innocence) e garage-pop inglese (sentire Does This Mean You'Re Moving On? o Missy, che nel brit-pop ci casca interamente). Difficile trovargli una collocazione, potremmo azzardare per loro un posto tra i Franz Ferdinand e i Gaslight Anthem nel firmamento musicale, anche se certe aperture melodiche e sinfoniche evidenziate nella lunga Sometime Around Midnight fanno presagire anche qualcosa di più complesso in futuro rispetto a queste micidiali 3-minute songs da urlo da teenagers.

D'altronde Gasoline spiega benissimo cosa muove queste canzoni, con quel "bruciamo noi stessi fino a gridare" che definisce alla perfezione l'urgenza di strillare una rabbia e un dolore che solo gli anni verdi sanno far vivere con tale intensità. Per chi invece è uscito indenne dal grigiore dei trent'anni, il consiglio e di ascoltare questo disco senza chiedersi troppo se tutto ciò possa avere ancora un senso nella propria vita. Il vero senso è quello del rock and roll, semplicemente delle grandi palle di fuoco da far bruciare in fretta. A qualsiasi età.
(Nicola Gervasini)

giovedì 27 agosto 2009

NICK HENSLEY - Love Songs For Angry Men


22/07/2009
Rootshighway



Inventiamoci uno slogan per questo album d'esordio di Nick Hensley, già leader dei District negli anni '90. Potrebbe essere "Direttamente dal bancone del bar ai vostri lettori", oppure "Cosa non si fa con una birra e una chitarra!". Insomma avete capito, queste Love Songs For Angry Men nascono da sette lunghi anni di vita da bar di una band (gli Angry Men appunto…) che ha deciso di concedere al proprio leader l'onore della titolarità del primo disco. Cuore, passione, belle chitarre, canzoni scritte con gusto e anche qualche colpo di originalità (l'accoppiata The Anthem of the Last Real Boy, quasi una giga celtica, e la train-song The Barefoot Prophet in My Front Yard fanno quasi sperare nel miracolo all'inizio del cd) e soprattutto il bel vocione di Nick, che a noi italiani non può non ricordare quello di Graziano Romani (da prendere come un complimento questo…).Purtroppo l'aver atteso tanti anni prima di riuscire a registrare questo album ha fatto sì che Nick Hensley abbia peccato di poca auto-severità nel tagliare i rami secchi, soprattutto considerando che brani come il duetto con la dolce vocalist Jessica Carey Call It What It Is emozionano per poco prima che ci si renda conto che il songwriting è davvero poca cosa, oppure come Sacred Ground, materia che sempre il nostro Romani saprebbe trattare meglio quando è in vena. E non essendo un cavallo di razza, Hensley zoppica quando rallenta troppo, come nell'acustica Content o nella irriverente Like A Jerk, e in genere nelle troppe ballate sparse nel disco, mentre invece regala grandi cavalcate quando spinge sull'acceleratore del rock americano di grana grossa. Qua e là comunque il nostro azzecca bei brani come la rabbiosa It's All the Same War, che chiude le danze o la bella Misguided Dreams Of Hollywood che appare forse come la scrittura più notevole del lotto. Ma negli altri brani latita persino un po' di quel sudore che si richiede al genere, anche se la mitologia che anima le rime di Biography of a Pretend Rock Star o Scars (Push Too Far) è sempre quella dei tempi d'oro in cui il blue-collar rock aveva ancora quel senso di rivalsa sociale che oggi fa fatica a ritrovare. Sorpassato, ma incondizionatamente adorabile proprio per questo. (Nicola Gervasini)

domenica 23 agosto 2009

FROG HOLLER - Believe It Or Not


14/07/2009
Rootshighway

VOTO: 6,5


Si era puntata anche qualche fiches importante nel nostro sito sul nome dei Frog Holler, basta anche solo recuperare le recensioni dei loro vecchi dischi (Idiots del 2001, Railings del 2003, Haywire del 2005) e per rendersene conto. "Americana", "alt-country", semplice american-music che sia, la musica dei Frog Holler ha sempre avuto qualche cosa di più della massa, pur navigando sempre in quel mondo "post-No Depression" che in questi anni duemila ha avuto vita difficile. Believe It Or Not è il loro quinto disco in dieci anni di attività, e arriva a confermare il fatto che la penna di Darren Schlappich (sarà per il nome impronunciabile che le porte della fama gli sono state sempre negate?) resta una delle più brillanti del genere, persino quando si adagia nella routine melodica di una stra-sentita To Turn Back Now.

Purtroppo però conferma anche che la band non ha fatto il salto di qualità che si sperava, forse complice il fatto che i ragazzi abbiano imbastito uno studio casalingo per l'occasione, operazione che assicura un lavoro con tempi più lunghi e senza l'assillo di dover sfruttare al massimo il costoso tempo di sala registrazione, ma che potrebbe anche essere la causa di una certa lassità produttiva (li ha aiutati Ben Longenecker) che penalizza un poco queste canzoni. Basta prendere fin da subito Not Like Us o Alibis, buone canzoni che soffrono di un suono un po' piatto e di una vocalità che si accontenta un po' troppo di raccontare le proprie storie, quando magari i buoni consigli di qualche addetto ai lavori più professionale avrebbe dato al tutto più brillantezza. Se dunque i suoni e le performances lasciano un po' a desiderare, i brani riescono comunque a farsi notare. Sicuramente da ricordare il country pigro di Fundamental Blues, le spigolature di Honest Bill (come non ricordare gli Uncle Tupelo più elettrici in questo caso?), il grande muro elettrico di Whiskey Ditch, forse il momento più esaltante del disco, ma anche l'attimo in cui se ci si immagina dei Drive By Truckers alle prese con lo stesso pezzo, si capisce quanto i Frog Holler abbiano ancora da correre e macinare chilometri.

Il disco ha il grande pregio di essere vario e alternare momenti esplosivi a ballate piacevoli e leggere come Decide o Control Freak (I Know I Know) o altre con maggiore peso specifico (Strange Powers). Si finisce bene con l'accorata New Years Day ("sento che suonano la nostra canzone alla radio, ma tu non senti più nulla") e si rimane con un po' di amaro in bocca nel constatare come il mondo del self-made-record stia appiattendo talenti che avrebbero bisogno solo di qualcuno capace di fargli spiccare un salto verso l'alto. Ma al prossimo balzo, anche se piccolo, noi ci saremo comunque.
(Nicola Gervasini)

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