mercoledì 27 luglio 2011

DEATH CAB FOR CUTIE - Codes and Keys


Molti di voi avranno scoperto l’esistenza dei Death Cab For Cutie in occasione dell’uscita del bellissimo e sempre consigliato One Fast Move Or I’m Gone, progetto del leader Ben Gibbard scritto a due mani con Jay Farrar dei Son Volt, nato come colonna sonora di un documentario su Jack Kerouac (consigliato pure questo, lo trovate in alcune edizioni del cd). Un disco vicino all’americana-folk di Farrar, dove però la bella voce di Gibbard aveva sorpreso tutti per come si era perfettamente adattata allo spirito dell’operazione, dando infine il vero valore aggiunto all’album. Curiosità dunque per questo nuovo album della sua band, vero e proprio mito indie degli anni 2000, che prende il nome da un brano della Bonzo Dog Doo-Dah Band (era sull’album Gorilla del 1967, ma fu eseguito anche dai Beatles durante il Magical Mystery Tour), soprattutto con la speranza che un po’ della polvere delle strade di Kerouac fosse rimasta nella chitarra di Gibbard dopo l’avventura in territori roots. Invece, quasi a voler giocare a sorprendere, Codes and Keys esce anticipato dalla presentazione fatta dal bassista Nick Harmer del “nostro album meno chitarra-centrico di sempre”. Le strade di Kerouac sono dunque cosa di Gibbard, che tornato con i fidi compari che lo seguono fin dal 1997 (il tastierista Chris Walla, che figura anche come produttore dell’album, e il batterista Jason McGerr), arriva a citare Brian Eno, gli OMD e il Bowie di Low come muse ispiratrici. Le parti musicali sono state registrate tutte usando un software, ma non aspettatevi per forza effetti strani e orge di batterie elettroniche, quanto una musica calda e veramente suonata, solo volta a cercare sonorità lontane dal rock. Il risultato infatti da in parte ragione a loro, la title-track ad esempio colpisce subito come un brano decisamente riuscito, e in generale la maggior parte delle canzoni sembrano mostrare una maturità invidiabile (davvero notevole l’accoppiata Doors Unlocked and Open e You Are a Tourist), con dei bei testi incentrati sulle nuove avventure matrimoniali dei membri della band (Gibbard ha recentemente sposato Zooey Deschanel dei She & Him). Walla poi nei momenti strumentali del disco trova davvero la quadratura giusta tra melodia, sperimentazione e suoni di tastiera che riescono a non essere freddi (ascoltate la lunga intro di Unobstructed Views, la ditta Eno/Bowie ne sarebbe fiera). Ogni tanto, come spesso succede quando la sperimentazione diventa un po’ un imperativo, sforano un po’ in soluzioni che si potevano meglio ragionare, ma se volete sentire come potrebbe suonare un disco rock fatto da una band a cui hanno rubato il furgone delle chitarre, questa è l’occasione giusta.

Nicola Gervasini

venerdì 22 luglio 2011

THE WILDERNESS OF MANITOBA - When You Left The Fire


THE WILDERNESS OF MANITOBA


Trovato il gruppo che fa successo, ecco che come d’incanto le etichette rastrellano il terreno delle giovani band in cerca di piccoli cloni per cavalcare l’onda. Iniziare così la descrizione del loro disco d’esordio potrebbe forse essere troppo penalizzante per i canadesi Wilderness of Manitoba, ma non saremo i primi (e certo non gli ultimi) che si sentiranno in dovere di notare le forti affinità del loro folk tutto cori e atmosfere sognanti con quello dei Fleet Foxes. A ben vedere noi ci metteremmo anche i Midlake, in modo che esauriti così i rimandi ad altri artisti (altrimenti dovremmo tirare in ballo come minimo Crosby Stills e Nash e i Pentangle), possiamo tranquillamente scoprire come dietro a questo When You Left The Fire si cela un quintetto pieno di belle idee e soprattutto padrone di un songwriting per nulla scolastico. Il loro nome è quello di una riserva naturale della regione canadese di Maritoba, e il rapporto intimo e spirituale con la natura è di fatto il tema principale dei loro testi, con particolare enfasi sulle stagioni come metafora della propria esistenza (November, Summer Fires). La struttura delle canzoni poggia tutto sugli arpeggi acustici delle chitarre di Will Whitwham e Stefan Banjevic, mentre gli impasti vocali vedono spesso protagonisti l’ugola femminile di Melissa Dalton e quella del bassista Scott Bowmeester, per cui solo il batterista Seam Lanearic non partecipa alla corale. Il resto lo fanno i pochi interventi dell’immancabile ukulele (ormai non manca mai nei dischi indipendenti che si rispettino), qualche tastiera e banjo e poco altro. Il risultato è sicuramente suggestivo e, sebbene sempre tarato su tinte sonore autunnali, i suoni e le voci riempiono le casse dello stereo che è un piacere. E prese singolarmente, anche tutte le canzoni hanno sempre qualcosa da dire d’importante, e non è un caso che la band abbia ritenuto necessario apporre un commento sul contenuto di ogni singolo brano, visto che il cd è davvero uno di quelli da ascoltarsi in silenzio, con mente libera e libretto alla mano. Dove forse i ragazzi ancora peccano è nella visione di insieme, perché When You Left The Fire dura quasi un ora e offre davvero pochi diversivi se non il brit-folk a cappella alla Steeleye Span di Native Tongue e poco altro. In ogni caso il cd è consigliato, perché brani come Orono Park o St Petersburg non si perdano nel marasma delle produzioni indipendenti, meritando invece di essere ricordati di tanto in tanto.

Nicola Gervasini

martedì 19 luglio 2011

CASS McCOMBS - Wit's End

inserito 18/06/2011

Cass McCombs
Wit's End
[
Domino Recording 2011
]



Se vi andate a cercare nel nostro archivio la recensione al cd Dropping The Writ diCass McCombs troverete la storia fatta di tante idee ma ben confuse di questo strambo folk singer, uno che alla voce "curiosità" vanta il fatto di aver già fatto disporre che sulla sua tomba venga messa la scritta "finalmente a casa", giusto per inquadrarvi il personaggio. Distratti da altro non abbiamo avuto il tempo di segnalare come il nostro abbia cominciato a mettere nell'ordine giusto i neuroni della sua creatività con il più mirato Catacombs del 2009, ove il nostro spogliava le canzoni dei tanti inutili orpelli del suo predecessore e raggiungeva un livello già ragguardevole. La strada gli deve essere parsa davvero quella giusta, se è vero che Wit's End si presenta subito come uno di quei dischi estremi che dovete decidere solo se amare o odiare con forza. 47 minuti soffocanti, solo 8 brani genericamente lunghi e trascinati, il nuovo Cass McCombs potrebbe riaprire le stesse diatribe vissute anche sulle nostre pagine a proposito del recente disco di Josh T Pearson. Ma laddove nel caso di Pearson lamentavamo un flusso di emozioni forti che si dimenticava totalmente della forma, in questo caso al massimo potremmo lamentarci di qualche autoindulgente estetismo di troppo.

Wit's End è infatti un disco fintamente essenziale, falsamente scarno, che nasconde dietro una patina di compiacente malinconia e mestizia un artista che comincia davvero a saper fare cose serie con gli arrangiamenti e abile nella costruzione delle canzoni. Prendete Saturday Song, probabilmente quello che avrebbe potuto partorire un Syd Barrett (le voci sono davvero simili) con alle spalle un produttore in grado di inquadrarlo quel minimo che basta, o prendete il pop lumacoso dello splendido singolo County Line o anche il bel valzer dark diThe Lonely Doll. Sono tutti brani soffusi e annoiati, che però celano una strumentazione varia, fatta di archi, tastiere, xilofoni e tanto altro, che dimostrano che McCombs non si è accontento di ostentare il suo personaggio di bohemien dal cuore rotto e solitario, ma ha pensato a creare musica anche al di là del proprio atteggiarsi da artista.

Non tutti avranno la pazienza e la necessità di passare attraverso i 7 minuti e oltre di Memory's Stain (sembra un brano solo piano e voce, ma gli strumenti in gioco sono molti di più), o trovare entusiasmante il folk zoppicante di Hermit's Cave, ma certamente potrete apprezzare subito un numero "alla Tom Waits" come A Knock Upon The Door, che sembra una outtake di Frank's Wild Years cantata da un pop-singer inglese. Inevitabilmente l'insieme appare comunque esageratamente lento e oscuro, quasi che il fatto di ideare un concept dedicato alla solitudine lo abbia fatto sentire in obbligo di usare solo tinte abuliche e scoraggiate. Ma questa volta la sostanza c'è, se solo avete la pazienza di trovarla.
(Nicola Gervasini)

www.cassmccombs.com



lunedì 11 luglio 2011

JOAN BAEZ - Play Me Backwards


Joan Baez
Play Me Backwards
[Proper Collectors ed. 2011
]



Siamo tutti bravi a fare gli intenditori con gli artisti che conosciamo a fondo, ma quando salta fuori un nome come Joan Baez è facile per chiunque cadere nel tranello dell'immagine iconografica. Dici Baez e pensi al folk di protesta, alle lotte politiche e civili, all'amore per Dylan: tutte immagini rigorosamente in bianco e nero. Ma difficilmente parlando di lei si pensa subito alla sua musica, magari i più attenti si ricordano di qualche album (il vendutissimo Diamond And Rust del 1975 ad esempio), ma è innegabile che ad oggi nella memoria è rimasto più il personaggio che le sue canzoni. Noi in passato ci siamo perlomeno ricordati di segnalarvi quello che è forse il suo documento live più bello e completo (Ring Them Bells del 1995 - ma ripubblicato in versione ampliata nel 2007), ma abbiamo dimenticato di spendere qualche parola su album comunque interessanti come Dark Chords On A Big Guitar del 2003 (con brani di Greg Brown, Joe Henry, Natalie Merchant e Gillian Welch) e Day After Tomorrow del 2008 (prodotto e in parte anche scritto da Steve Earle). Dischi maturi, nati per il puro piacere dell'ascolto e non più funzionali a qualche battaglia sociale, che continuavano una fase interessante iniziata nel 1992 con l'album Play Me Backwards, piccola gemma dimenticata nel tempo, che viene ora ripubblicata con un cd di demo inedite in aggiunta.

Per capire questo disco bisognerebbe andare con la memoria al cosiddetto periodo nashvilliano dell'artista, quello che da Any Day Now del 1968 arriva fino a Where Are You Now My Son? del 1973. In quel lasso di tempo la Baez ha prodotto dei dischi ancora oggi godibilissimi, dove all'attenzione sui contenuti faceva da contrappeso una cura produttiva certosina, dettata dal fatto che le registrazioni avvenivano non più a New York negli studi della Vanguard, ma bensì a Nashville con i professionali musicisti locali capitanati dall'esperto produttore/bassista Norbert Putnam. Un periodo che fece storcere il naso ai puristi del folk, che videro nella mossa una sorta di ulteriore dipendenza dalle scelte del Bob Dylan nazional-popolare di Nashville Skyline e Self Portrait, oltre che un cedimento alle logiche di mercato e di fruibilità radiofonica. Play Me Backwards veniva invece dopo un periodo di crisi dell'artista, che negli anni 80 si era concentrata più sulla vita privata, e che aveva fallito il tentativo di tenersi al passo con i tempi con titoli ben poco memorabili come Recently del 1987 (dove tentava una improbabile Brothers In Arms dei Dire Straits) e Speaking Of Dreams del 1989 (qui addirittura rileggeva George Michael). Il disco segnò il suo ritorno a Nashville, dove affidò a due professionisti del luogo (Wally Wilson e Kenny Greenberg) il compito di darle un nuovo suono. Wilson la gelò subito dicendole che il fatto che lei sapesse come scrivere una poesia non voleva dire che sapesse anche come scrivere una canzone decente, e la spinse a provare a comporre e registrare tantissimo prima di entrare in studio.

Nell'album figurano infatti brani come la title-track, ma anche The Dream Song o The Edge Of Glory, firmati dalla Baez con un gusto melodico davvero inedito per lei. Il nuovo punto di riferimento artistico era tutto nella splendida cover di Stones In The Road di Mary Chapin-Carpenter, lei una delle recenti muse della canzone country al femminile, la cover invece il vero e proprio highlight dell'album che oscura le altre riletture presenti (una discreta Through Your Hands di John Hiatt, Amsterdam di Janis Ian, Strange Rivers di John Stewart). Interessanti comunque anche i demo abbandonati in sede di registrazione e quindi qui presentati nella loro scarna veste acustica, più che altro perché presentano le tante altre cover scartate dall'album, tra cui anche l'immancabile passaggio nel mondo dylaniano con la tesa Seven Curses. Play Me Backwards è un disco che regge il tempo e forse un'occasione mancata di rinascita dell'artista, visto che i risultati commerciali furono comunque modesti, e la critica nel 1992 era troppo impegnata a seguire altri mondi musicali ben più giovani, attivi e ferventi. Ma se mai vi foste chiesti che ne sarebbe stato della Baez senza le sue lotte da attivista, la risposta è tutta qui: sarebbe stata un'ottima e semplicissima country-singer.

(Nicola Gervasini)

www.joanbaez.com
www.propermusic.com



lunedì 4 luglio 2011

OKKERVIL RIVER - I Am Very Far






Che il sesto album degli Okkervil River sarebbe stato quello di una nuova svolta per il gruppo era nell'aria già da tempo. Contando che The Stand Ins era un disco nato insieme al precedente The Stage Names, era dal 2007 che Will Sheff e compari non entravano in uno studio di registrazione (a parte il bellissimo disco con Rory Erickson), e le dichiarazioni dell'ormai incontrastato leader del gruppo (all'indomani del definitivo abbandono di Jonathan Meiburg, comunque presente in queste sessions) erano tutte volte a preparare il terreno a qualcosa di inedito e rivoluzionario. Abbiamo scaramanticamente stretto un po' i denti, gli occhi e forse anche qualcos'altro prima di ascoltare I Am Very Far e abbiamo invocato gli dei perché non ci facessero recitare l'epitaffio anticipato per una delle band che più abbiamo amato e sostenuto negli anni 2000, ma alla fine le nostre preghiere sono state ben ripagate.

Sconvolgetevi pure per il fatto che il singolo Piratess è un brano più vicino alla lounge-music anni 80 che al loro freak-folk trasversale (wurlitzer, batteria elettronica, basso in evidenza…), che l'iniziale The Valley si basa su un pesantissimo big-drum-sound anni 80 che farebbe invidia al Max Weinberg di Born In The Usa (con l'unica differenza che in questo caso l'effetto è ottenuto facendo suonare la batteria del nuovo arrivato Cully Symington in sovraesposizione ad una seconda suonata dallo stesso Sheff). E basta anche leggere l'ultima frase per trovare subito qual è il denominatore comune tra queste canzoni: gli anni 80, che tornano prepotentemente sottoforma di un rinnovato (e ovviamente più saggio) utilizzo delle tecnologie, di sampler, esperimenti con nastri riavvolti e svariati tipi di tastiere, e di grandi produzioni mai troppo scarne (vi diamo un paio di dati per rendere il concetto: per realizzare l'album sono stati utilizzati 31 musicisti, per un totale di circa 35 strumenti diversi tra vari tipi di tastiera, archi, chitarre e diavolerie elettroniche). I Am Very Far nasce dunque come prodotto di un lungo percorso creativo in studio di registrazione, ma senza l'assillo delle vendite che regnava negli eighties, senza l'idea che la musica debba essere adattabile ad un immagine, senza soprattutto produttori imposti dalle case discografiche e con gusti lontani da quelli della band.

Se l'album non fallisce l'obiettivo come è accaduto al recente Celebration, Florida dei Felice Brothers è semplicemente perché Will Sheff sembra davvero non aver mai perso di vista il fine di tutto: scrivere grandi canzoni. E così godiamoci brani che in verità non sono per nulla così lontani dagli Okkervil River che furono, come ad esempio White Shadow Waltz, un pezzo che 6 anni fa la band avrebbe registrato nello stile dark-folk di Black Sheep Boy, e che invece oggi presenta in un tripudio di batterie tuonanti, archi maestosi, cori unisoni e tastiere martellanti. Godiamoci Rider, puro roots-rock mainstream, oppure il tema da colonna sonora di Mermaid, il folk-pop leggero di Lay Of The Last Survivor, il crescendo di Your Life Past As A Blast, la marcia pop di Wake And Be Fine. Difetti? Sheff stesso ammette di non aver ancora capito bene quale sia il risultato ottenuto, e forse nell'essere ancora un oggetto indefinito e indefinibile sta tutto il limite di I Am Very Far, che non sarà mai il primo disco degli Okkervil River che consiglieremo ai neofiti, ma che ha già raggiunto l'incredibile risultato di evitare che qualcuno un domani possa dire "Ah, gli Okkervil River, mi sono piaciuti fino a The Stand Ins, poi quando hanno cambiato stile non li ho più seguiti…".
(Nicola Gervasini)

www.okkervilriver.com


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