giovedì 31 marzo 2016

KEITH EMERSON

Ci sono musicisti che hanno incarnato un’idea del far musica ben precisa, e per questo sono discussi, amati o odiati senza mezze misure. Keith Emerson era uno di questi:  idolatrato da chiunque consideri la tecnica e lo studio la conditio sine qua non di una qualsiasi produzione discografica, odiato invece da chiunque abbia abbracciato la filosofia che il rock è prima di tutto improvvisazione e istinto. Eppure, quando il 10 marzo scorso ci ha lasciato, Emerson ha ricevuto gli onori delle armi anche da chi non lo ha mai amato. Giusto riconoscimento per il tastierista per eccellenza del mondo del progressive inglese, prima con i Nice, quando si permetteva impunemente di far convivere Bach e Dylan nello stesso brano, poi con la miliardaria esperienza degli Emerson, Lake & Palmer. Il suo mito nacque per l’assolo di moog che chiude Lucky Man del loro primo album, da un lato perfetta rappresentazione di come anche una bella folk-ballad potesse essere terreno fertile per il suo stile barocco e ridondante, per i detrattori il primo esempio di “perfetto assolo che nulla c’entra con la canzone” (la storia dice che effettivamente lui lo registrò controvoglia, solo per poter giustificare il fatto che un brano così anti-prog apparisse sul disco del trio). Eppure la sua eredità è tutta in quel minuto finale, in quell’idea che classica, rock, folk e jazz  fossero in fondo un unico mezzo per arrivare al fine: il musicista. Una teoria che ha portato avanti con coerenza fino alle estreme conseguenze, sparandosi un colpo in testa nel momento in cui ha scoperto di non poter più esibirsi per una malattia alla mano destra. Emerson aveva una intelligenza nello sperimentare suoni e nuove soluzioni indubbiamente fuori dal comune, ed è singolare, quanto ironico per un artista poco avvezzo all’essenziale come lui, che nelle accademie di musica gli allievi imparino il giro base del blues sulla sua partitura di Hony Tonk Train Blues, unico suo singolo solista di successo (in Italia fu sigla di Odeon, noto programma di RaiDue), e perfetta esecuzione di un vecchio brano del 1927. Dopo l’era d’oro del prog non ritrovò più l’occasione giusta per le sue scorribande, se non per la memorabile soundtrack di Inferno di Dario Argento nel 1980. Ed è da qui che varrebbe la pena partire per riscoprirlo.

Nicola Gervasini

lunedì 14 marzo 2016

MOUNT MORIAH

MOUNT MORIAH
HOW TO DANCE
Merge records
***1/2

Per i credenti  dire Monte Moriah significa indicare l’idea di sacrificio, inteso come estremo atto di cieca fede e dichiarazione di vera devozione. E’ su quel monte che si consumò il sacrificio di Isacco da parte di Abramo, e anche Noè scelse il luogo per i propri sacrificio a Dio. Nome impegnativo quindi per una roots-band del North Carolina che già da qualche anno si sta facendo notare grazie alla bella voce della vocalist Heather McEntire, una che sul comodino tiene sicuramente un santino di Natalie Merchant e nutre la sua band (ufficialmente Jenks Miller alle chitarre e Casey Toll al basso, mentre alla batteria  c’è in questa occasione Terry Lonergan che non è ufficialmente ritenuto della band) con dischi dei Jayhawks e dei Whiskeytown a giudicare dal suono che pesca a piene mani nel mondo alternative-country anni novanta. Già il precedente album Miracle Temple era piaciuto molto nel mondo Americana, ma qui con questo How To Dance direi che ci siamo in quanto a maturazione. Sebbene privi di una marca particolare nel suono, e, se vogliamo, anche nel modo di cantare della McEntire, i Mount Moriah sanno coniugare perfettamente un sound pieno e ben costruito (per quanto autoprodotto), con una serie di brani accattivanti e ben dosati tra momenti riflessivi (Baby Blue) e momenti più elettrici come Cardinal Cross, con un sound un po’ distorto quasi più vicino al Paisley Undeground o a certi momenti un po’ distorti dei Cowboy Junkies. Album breve (37 minuti per dieci canzoni), How to Dance dopo l’efficace inizio di Calvander e Precita, trova il suo zenith in Higher Mind, un brano che piacerebbe molto all’ultima sempre più sofferta Lucinda Williams, e che si segnala soprattutto per il bel testo ancora un a volta pieno di riferimenti biblici sul tema della penitenza. E non è l’unico momento importante, visto che il finale con la title-track e la lunga Little Bear ancora confermano quanto la band possa ancora dare di più. Forse è tardi per dire qualcosa di veramente nuovo suonando una musica che ha trovato una sua definizione più di vent’anni fa, ma non è mai troppo tardi per farla vivere ancora in buoni dischi.

Nicola Gervasini

lunedì 7 marzo 2016

LUCINDA WILLIAMS

Pochi nomi hanno pesato sulla canzone americana degli ultimi vent’anni come quello di Lucinda Williams. Tutte le nuove generazioni di cantautrici (e non solo) la seguono, la imitano, e la cercano in ogni canzone. Negli anni scorsi ha insegnato come trasformare la canzone country in qualcosa di moderno e slegato dai rigidi cliché del genere, tanto da essere ormai apprezzata anche da un pubblico che certo non vede in Nashville una Mecca di riferimento. Oggi invece si permette album come il nuovo The Ghosts Of Highway 20 (Highway 20), più che una semplice raccolta di canzoni, una lunghissima carrellata di american stories, spesso dolorose e sofferte, come da sempre è il suo marchio di fabbrica lirico. Impreziosito dalla presenza della chitarra di Bill Frisell, il nuovo disco è una sorta di libro di testo su come si fa a raccontare vicende umane in musica, forse ostico e estenuante per orecchie poco allenate (brani molto lunghi e con pochi momenti di svago, tra cui anche una riuscita cover di Factory di Bruce Springsteen), ma sicuramente di uno spessore difficilmente raggiungibile dalle sue tante scolare. I brani sono legati da un’ideale percorso geografico che ne fa quasi un concept-album volto a spiare le miserie umane nelle case private di città in città. Se non la conoscete, non è forse questo il disco giusto per iniziare, ma sicuramente dovrà essere il vostro punto di arrivo.

Nicola Gervasini

giovedì 3 marzo 2016

DAN STUART


Dan Stuart with Twin Tones
Marlowe's Revenge
[Cadiz music/ Audioglobe 2016]
www.marlowebillings.com
File Under: Messico e nuvole

di Nicola Gervasini (01/03/2016)


I vecchi fans dei Green On Red non si scaldino troppo: i "golden years" di Dan Stuart restano inesorabilmente lontani. Il tocco personale, la capacità di scrivere la canzone perfetta, quei tesi ironici e taglienti come lame: quello che lo ha reso uno dei personaggi cardine di tutta la musica sotterranea americana degli agli ottanta si è perso tra l'inevitabile calo d'ispirazione e un lungo forzato esilio messicano. E se vogliamo, anche la voce tesa e catramata di un tempo aggredisce molto meno le orecchie dell'ascoltatore. Eppure il nostro eroe si è finalmente svegliato dal suo lungo letargo ed è tornato ormai da qualche anno a rimangiare la polvere della strada rock, con qualche acciacco, ma con un innegabile rediviva passione.

Nel 2012 il comeback con The Deliverance of Marlowe Billings, titolo che giocava sul nickname assunto da lui stesso e sul titolo di un suo libro (definito da Dan Stuart come "un insieme di parole e merda"), dove aiutato dal nucleo dell'estemporaneo gruppo degli Slummers, aveva confezionato un disco ancora incerto, ma già comunque vivo e sofferto. Marlowe's Revenge, titolo che subito si pone come ideale seguito, è però già un'altra storia. Registrato in Messico con l'aiuto dei Twin Tones (band strumentale simile ai Sonido Gallo Negro o agli stessi italiani Sacri Cuori) , il nuovo album sembra uscire dal pantano emozionale del suo predecessore e mira più al sodo, fin dalla rocciosa Hola Guapa che apre le danze, o la tesa Elena, che pare un brano del Nikki Sudden dei tempi d'oro. Last Blue Day ci riporta invece alle pigre e sofferte ballate di un tempo, giusta introduzione ai sei minuti di Soy Un Hombre, maestosa ballata elettrica, cattiva nei toni, ma non certo nel testo da amore disperato in multilingua. E il tono del disco resta decisamente elettrico, anche nelle successive The Whores Above e All Over You. Clima da Green On Red in vacanza messicana invece per Name Hog, brano dove finalmente ritroviamo la sua perfidia lirica, stavolta rivolta contro i mille principianti che oggi hanno la possibilità di registrare milioni di dischi inutili credendosi chissà chi.

Un brano forse fin troppo accidioso e presuntuoso (una traduzione libera potrebbe suonare così: "Ti sto ascoltando, hai qualcosa da dire? Anche se fai un disco un giorno sì e un giorno no, resti solo un porco nome, e sappiamo tutti che è vero. Stasera stai giocando a fare Dylan o Waterloo?"), ma se ai tempi d'oro Dan si permetteva invettive contro i colleghi blasonati (ne ricordo una davvero feroce contro il Micheal Stipe diLosing My Religion), figuriamoci come si deve sentire oggi dove il suo nome spesso e volentieri finisce sommerso in cartelloni popolati da una larga schiera di dilettanti allo sbaraglio. Più confusa l'altra lunga ballata Zipolote, anche se anche qui il testo fa a pezzi la giungla umana della West Coast, tra hippies nudi fuori dal tempo e allucinati surfisti che vengono da Seattle. "Non chiedetemi cosa vuol dire vivere una buona vita, ho perso così tanti anni ad affilare il coltello" canta nella conclusiva The Knife, sorta di canto conciliatorio in cui Dan sembra voler infine abbracciare il suo pubblico fedele dopo tante lotte.

Siamo felici per lui e per noi che lo riascoltiamo così in forma, anche se resta la nostalgia di quando era veramente, ma veramente incazzato.

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