MOUNT MORIAH
HOW TO DANCE
Merge
records
***1/2
Per i credenti dire Monte Moriah significa indicare l’idea
di sacrificio, inteso come estremo atto di cieca fede e dichiarazione di vera
devozione. E’ su quel monte che si consumò il sacrificio di Isacco da parte di
Abramo, e anche Noè scelse il luogo per i propri sacrificio a Dio. Nome impegnativo
quindi per una roots-band del North Carolina che già da qualche anno si sta
facendo notare grazie alla bella voce della vocalist Heather McEntire, una che sul comodino tiene sicuramente un santino
di Natalie Merchant e nutre la sua band (ufficialmente Jenks Miller alle
chitarre e Casey Toll al basso, mentre alla batteria c’è in questa occasione Terry Lonergan che
non è ufficialmente ritenuto della band) con dischi dei Jayhawks e dei
Whiskeytown a giudicare dal suono che pesca a piene mani nel mondo alternative-country
anni novanta. Già il precedente album Miracle
Temple era piaciuto molto nel mondo Americana, ma qui con questo How
To Dance direi che ci siamo in quanto a maturazione. Sebbene privi di
una marca particolare nel suono, e, se vogliamo, anche nel modo di cantare
della McEntire, i Mount Moriah sanno coniugare perfettamente un sound pieno e
ben costruito (per quanto autoprodotto), con una serie di brani accattivanti e
ben dosati tra momenti riflessivi (Baby
Blue) e momenti più elettrici come Cardinal
Cross, con un sound un po’ distorto quasi più vicino al Paisley Undeground o
a certi momenti un po’ distorti dei Cowboy Junkies. Album breve (37 minuti per
dieci canzoni), How to Dance dopo l’efficace inizio di Calvander e Precita,
trova il suo zenith in Higher Mind,
un brano che piacerebbe molto all’ultima sempre più sofferta Lucinda Williams,
e che si segnala soprattutto per il bel testo ancora un a volta pieno di
riferimenti biblici sul tema della penitenza. E non è l’unico momento
importante, visto che il finale con la title-track e la lunga Little Bear ancora confermano quanto la
band possa ancora dare di più. Forse è tardi per dire qualcosa di veramente
nuovo suonando una musica che ha trovato una sua definizione più di vent’anni
fa, ma non è mai troppo tardi per farla vivere ancora in buoni dischi.
Nicola Gervasini
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