Dirk Hamilton Touch and Go [Acoustic Rock/ IRD 2016] www.dirkhamilton.com File Under: beautiful losers are still alive di Nicola Gervasini (28/06/2016) |
Facciamo un discorso un po' scomodo: ci siamo mai chiesti "noi che ascoltiamo quelli che nessuno ascolta" se poi sia davvero solo un ingiustizia che gente come Willie Nile, Steve Forbert o Elliott Murphy (giusto per citare "losers" noti a tutti i nostri fedeli lettori) abbiano dovuto faticare per portare avanti le proprie carriere, vissute all'ombra del mondo discografico che conta (ma un'occasione per tutti c'è comunque stata)? Era davvero tutto oro che cola nel fango di un ingiusto oblio? Prendiamo il caso Dirk Hamilton: esordi su major, primi album bene, con cura negli arrangiamenti, "pensati". I suoi primi 4 album restano da avere, non si discute. Ma poi? L'apartheid discografico degli anni 80, la salvezza trovata in Italia grazie a Franco Ratti e la sua Appaloosa Records, e un ripresa discografica che fino ad oggi forse solo con l'ottimo Sufferupachuckle del 1996 ha veramente ritrovato lo smalto e la brillantezza dei primi anni.
Colpa solo del fatto che è stato dimenticato ed emarginato dunque se i suoi dischi hanno sempre lamentato grosse pecche produttive ed evidenti cali di ispirazione? In fondo, a ben vedere, a lui una nuova Billboard on the Moon non è più uscita. O non è forse vero che Hamilton, come anche i suoi colleghi, si sia un po' arreso all'evidenza di una grande carriera naufragata sul nascere, contando però sul suo piccolo ma duraturo zoccolo di fans ai quali basta anche solo il fatto che si faccia vivo, per sentirsi parte di una setta carbonara per pochi adepti. Sono proprio loro i primi a non richiedergli nuovi slanci creativi, ad accontentarsi sempre in nome dell'epica della resistenza del Loser contro i cattivoni dell'industria discografica. Arriviamo dunque a Touch and Go: la bella notizia per i fans è che si tratta senza dubbio del suo miglior disco da 20 anni a questa parte, appunto da quel Sufferupachuckle di cui pare fin da subito l'ideale seguito per suoni, stile e tipo di canzoni.
La brutta notizia è nella frase precedente: Hamilton si è solo impegnato di più in fase realizzativa, ha selezionato bene le canzoni, ma non c'è ancora nulla qui che possa cambiare la sua storia, né tanto meno rilanciarlo. Ma, quel che è peggio, neppur incuriosire troppo le nuove generazioni di cantautori e i loro pochi giovani seguaci. Quello che sentiamo è ancora quel suo essere un po' un Van Morrison più ironico e stralunato, che mischia folk, soul e ogni tanto qualche ritmo caraibico. Mix vecchio, ma sempre godibile quando serve a tirar fuori pezzi come Head On The Neck o ballate soulful come la title-track, o quando finalmente si risente la sua penna ritrovare la vena satirica che più gli era congeniale (Build A Submarine).
Prodotto praticamente in presa diretta, live in studio da Rob Laufer (artista solista più conosciuto come chitarrista per Fiona Apple, Frank Black e versione recente dei Cheap Trick), Touch and Go è un disco che merita attenzione brano per brano (non ne abbiamo lo spazio qui ora…), e lo si può salutare anche come un gradito ritorno alla forma. Ma contate che sto sempre rivolgendomi solo a voi che già del buon vecchio Dirk conoscete vita e miracoli.
Colpa solo del fatto che è stato dimenticato ed emarginato dunque se i suoi dischi hanno sempre lamentato grosse pecche produttive ed evidenti cali di ispirazione? In fondo, a ben vedere, a lui una nuova Billboard on the Moon non è più uscita. O non è forse vero che Hamilton, come anche i suoi colleghi, si sia un po' arreso all'evidenza di una grande carriera naufragata sul nascere, contando però sul suo piccolo ma duraturo zoccolo di fans ai quali basta anche solo il fatto che si faccia vivo, per sentirsi parte di una setta carbonara per pochi adepti. Sono proprio loro i primi a non richiedergli nuovi slanci creativi, ad accontentarsi sempre in nome dell'epica della resistenza del Loser contro i cattivoni dell'industria discografica. Arriviamo dunque a Touch and Go: la bella notizia per i fans è che si tratta senza dubbio del suo miglior disco da 20 anni a questa parte, appunto da quel Sufferupachuckle di cui pare fin da subito l'ideale seguito per suoni, stile e tipo di canzoni.
La brutta notizia è nella frase precedente: Hamilton si è solo impegnato di più in fase realizzativa, ha selezionato bene le canzoni, ma non c'è ancora nulla qui che possa cambiare la sua storia, né tanto meno rilanciarlo. Ma, quel che è peggio, neppur incuriosire troppo le nuove generazioni di cantautori e i loro pochi giovani seguaci. Quello che sentiamo è ancora quel suo essere un po' un Van Morrison più ironico e stralunato, che mischia folk, soul e ogni tanto qualche ritmo caraibico. Mix vecchio, ma sempre godibile quando serve a tirar fuori pezzi come Head On The Neck o ballate soulful come la title-track, o quando finalmente si risente la sua penna ritrovare la vena satirica che più gli era congeniale (Build A Submarine).
Prodotto praticamente in presa diretta, live in studio da Rob Laufer (artista solista più conosciuto come chitarrista per Fiona Apple, Frank Black e versione recente dei Cheap Trick), Touch and Go è un disco che merita attenzione brano per brano (non ne abbiamo lo spazio qui ora…), e lo si può salutare anche come un gradito ritorno alla forma. Ma contate che sto sempre rivolgendomi solo a voi che già del buon vecchio Dirk conoscete vita e miracoli.
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