mercoledì 29 marzo 2017

MARK EITZEL - Hey Mr. Ferryman

Mark Eitzel 
Hey Mr. Ferryman
[
Decor records 
2017]
mergerecords.com/mark-eitzel
File Under: American Slow-Core Club

di Nicola Gervasini (10/03/2017)
Si dirà che Mark Eitzel in fondo fa lo stesso disco, se non proprio la stessa canzone, da anni. Sarà per questo che il suo nome è uscito da tempo dai radar della critica musicale, che ha salutato molti suoi lavori recenti, compresi quelli dei riformati American Music Club, con l'aria annoiata di chi deve per forza rivedere un vecchio amico che dava già per perso. E' indubbio che un po' se la sia giocata male anche lui: nel 1997 gli album 60 Watt Silver Lining e West furono ben accolti e diffusi, ma da lì in poi si è perso in produzioni forse troppo casalinghe, fino ad arrivare al 2002 e un cover-record (Music for Courage and Confidence) che gli fece guadagnare anche qualche insulto.

Noi continuiamo a credere che almeno il secondo tentativo di ridare lustro al nome degli American Music Club (The Golden Age del 2008) fosse un buon disco, così come non era certo da buttare il suo Don't be A Stranger del 2012, ma sarà forse questo Hey Mr Ferryman il titolo giusto a riportarlo in carreggiata, e a far ricordare che sì, lo stile non cambia, ma lui resta un maestro di un songwriting al quale tutto l'indie rock degli anni duemila deve molto. Il disco poi è davvero il suo prodotto più curato e convinto da tanto tempo, con una sequenza inziale che va dallo splendido mid-tempo di The Last Ten Years alla maestosa melodia di The Answer (a fine album ne viene fornita una seconda versione, più ritmata, ma altrettanto incisiva), fino ad una sofferta e finemente arrangiata The Road, brani che davvero si pongono come nuovi picchi del suo songbook.

Molto del merito va alla collaborazione col chitarrista e produttore Bernard Butler, genio della prima ora degli Suede, che ha creato intorno alla voce sempre calda e soffusa di Eitzel un accompagnamento spesso barocco (le ariose orchestrazioni di Let Me Go), ma mai invadente. Non c'è nulla che dia l'impressione di essere scarno qui, nemmeno un pezzo acustico e notturno come Nothing and Everything che possiede un fine arrangiamento di voci in sottofondo che testimonia la grande cura messa nel realizzare il disco. Sembra quasi volerci dire che se il mondo del songwriting può ormai solo ripetere sé stesso, è anche vero che c'è ancora spazio per realizzare canzoni che colpiscono al cuore e che non confondono l'autoproduzione con la sciatteria. Il suo campionario è già noto, con qualche inserto di elettronica su testi enigmatici dai lunghi titoli come An Angel's Wing Brushed the Penny Slots In My Role as Professional Singer and Ham, ma, contrariamente al solito, c'è una piacevole varietà di idee nel corso del disco, nonostante il clima rimanga quello autunnale che vi aspettereste dal personaggio.

Qualche momento meno brillante c'è (la leziosa Just Because) e arriva nella seconda parte, ma tra dediche a vecchi compagni di viaggio della malinconia (The Singer, dedicata a Jason Molina) e dimostrazioni di classe (La Llorona), Eitzel ci consegna uno dei lavori più significativi della sua carriera.

lunedì 20 marzo 2017

RYAN ADAMS

Ryan Adams 
Prisoner
[PaxAm/ Blue Note
 2017]
www.paxamrecords.com
File Under: blood on the tracks
di Nicola Gervasini (17/02/2017)
C'è una evidente differenza tra il Ryan Adams degli anni zero e quello degli anni dieci. Laddove un decennio fa assistevamo alle eccitanti continue prove di forza di un artista impegnato a voler dimostrare di poter essere buono per tutti i palati, oggi Prisoner arriva a confermarci che Adams ha deciso di calmarsi, anche se fortunatamente ancora non di fermarsi. Per cui, se prima in mezzo a dischi indiscutibilmente importanti, Adams ci aveva abituato ad uscite risolte in deliziosi esercizi di stile quando andava bene (Jacksonville City Nights), o semplicemente malriuscite deviazioni dal tema quando andava male (Rock And Roll), a partire da Ashes and Fire del 2011 il suo stile si è stabilizzato su quella malinconica canzone a cavallo tra country e indie-folk che aveva trovato in Love Is Hell e Cold Roses la sua realizzazione più convincente.

Persino quando fa gli scherzi ora Adams appare addomesticato e riappacificato, se è vero che anche il precedente 1989 partiva sì da un'idea provocatoria (rifare completamente in chiave rootsy un album pop di Taylor Swift), ma si risolveva in un risultato decisamente poco avventuroso e in tutto per tutto simile alla sua produzione autografa. Chi lo segue ci guadagna una certa nuova e insperata garanzia di qualità, e non si rischiano più fregature tipo Orion del 2010, ma per contro in Prisoner si comincia a respirare quella pericolosa aria di minestra riscaldata ad essere negativi, o di semplice misurato professionismo a riconoscergli comunque il merito di saperci sempre fare un po' più dei suoi colleghi. Che la coperta cominci ad essere corta lo si capisce anche dal fatto che Adams si affretta a sparare subito le cartucce buone, iniziando quello che è a tutti gli effetti uno breakup-record alla Blood On The Tracks dedicato al suo recente divorzio, con il giusto fervore di Do You Still Love Me e con l'eccelsa scrittura della sofferta title-track.

Ma il resto del disco si risolve in una serie di gradevoli dèjà vù, e anche certi arrangiamenti tutto sommato grezzi (Outbound Train) o giocati su riff immediati come Anything I Say To You Know o giri roots risaputi come To be With You, cominciano a dare l'idea che anche in studio l'uomo si accontenti molto di più delle prime versioni partorite. Spero di essere smentito in futuro e di poter un giorno parlare di un Adams degli anni 20 come di una nuova elettrizzante avventura musicale, ma Prisoner sembra davvero il terzo capitolo di un unico album che unisce Ashes and Fire e il disco omonimo del 2014, e probabilmente finirà per rappresentarne l'anello debole. Intendiamoci: non c'è nulla che non vada qui, se non la sensazione che cominci ad approfittarsi anche lui della facilità con cui può offrirci brani che trasudano sofferenza come Breakdown o la struggente We Disappear senza scivolare troppo nel melodrammatico.

E' ancora presto per bocciare un suo disco quando è comunque ispirato, sentito, e pieno di brani di interessanti come questo, ma il suo essere sopra la media sta pericolosamente iniziando ad essere sempre meno evidente.

giovedì 16 marzo 2017

TIFT MERRITT

Tift Merritt 
Stitch of the World
[Yep Roc/ Audioglobe 
2017]
www.tiftmerritt.com
File Under: Blondes have (no) more fun
di Nicola Gervasini (06/02/2017)
Recensendo Stitch Of The World, sesto album della texana Tift Merritt, il critico Mark Deming si è chiesto "ma come fa a non essere una star una come lei?". Effettivamente la sua notorietà e le sue vendite nel mondo della country-music americana (dove ancora esiste un mercato ricco e album definibili come bestseller) sono state da sempre alquanto inferiori al suo potenziale. Aveva la voce, le canzoni anche radio-friendly, un viso alquanto fotogenico, eppure qualcosa è andato storto fin da subito. La Lost Highway che la scoprì ne intuì il potenziale fin dall'esordio di Bramble Rose del 2002, ma decise che i riscontri commerciali del successivo Tambourine (una grande produzione, e ancora oggi un grande disco) non erano in linea con le aspettative, e così la scaricò brutalmente. Dal 2008 Tift ci ha riprovato prima con una accoppiata di dischi alquanto melodici per la Fantasy (Another Country e See You On The Moon), poi , sconfitta, si è accasata alla Yep a coltivare il suo pubblico di nicchia.

Stitch of The World continua quindi il percorso da country d'autore iniziato con il più che buono Travelling Alone nel 2012, sempre più rivolto alla lezione di Lucinda Williams, e sempre meno votato al voler diventare la Linda Ronstadt degli anni 2000. La produzione è messa nelle mani di Sam Beam (alias Iron&Wine), e in studio girano nomi come Marc Ribot, Eric Heywood e il batterista Jay Bellerose, band di gran livello e produzione che, contrariamente a quanto possiate pensare, la butta sul rigorosamente classico ed evita qualsivoglia stramberia da indie-folk anni zero. Tift ci mette un pugno di canzoni molto personali, scritte nel corso di anni travagliati (ha avuto una figlia a inizio 2016, ma il matrimonio è naufragato pochi mesi dopo), dove resta una vena melodica gentile e mai avventurosa, con melodie che cullano l'ascoltatore come Icarus o My Boat e country-ballad di fine fattura (la title-track o Hearthache Is An Uphill Climb).

Quello che però pare evidente è che stavolta manca qualcosa, forse il brano killer, forse quello che è rimasto nascosto sotto una patina di eccessivo formalismo e professionalità da parte della Merritt, ma anche della band, che sembra eseguire con grande precisione ma poco coraggio un compito più che risaputo. Il risultato è un disco che piace, ma non sfonda le porte dell'anima come seppe fare il suo predecessore, sia quando Tift prova a dare un po' di pepe al sound come in Proclamation Bones, sia quando duetta con Sam Beam in ballatone come Something Came Over Me, niente che Emmylou Harris non abbia già insegnato a fare più di trent'anni fa. Non bocciamo di certo Stitch Of The World, ha i suoi momenti notevoli (Wait For Me ad esempio), ma conferma i limiti di un'autrice che non è riuscita ad essere al 100% né una country-star, né un'autrice guida per le nuove generazioni.

giovedì 9 marzo 2017

MICHAEL CHAPMAN

Michael Chapman 
50
[Paradise of Bachelors/ Goodfellas 
2017]
www.michaelchapman.co.uk
File Under: I'm afraid of Americans 

di Nicola Gervasini (26/01/2017)
Nel 1973, all'indomani di due album acclamati dalla critica come nuove pietre miliari del cantautorato di marca brit-folk, il britannico Allan Taylor volò negli Stati Uniti per registrare The American Album, un disco concepito a Nashville con musicisti locali. Inutile dire che l'esito di consensi in patria fu disastroso, e che il povero Taylor dovette ritornare sui suoi passi tradizionali in gran fretta. Era quello un disco non perfetto forse, ma davvero lungimirante, perché da molto tempo la stessa strada pare essere battuta anche da molti suoi esimi colleghi. Pensate al Richard Thompson di Electric che si fa produrre sempre a Nashville da Buddy Miller, o pensiamo da oggi anche a questo 50 di Michael Chapman (il riferimento è agli anni di carriera da poco raggiunti).

Uno che nelle interviste, presentando il disco proprio come il personale "American Album", afferma che "da sempre ogni musicista inglese sogna di registrare in America con musicisti americani, esattamente come ogni americano vorrebbe fare un disco ad Abbey Road". 50 in verità è stato registrato in Inghilterra, ma ad aiutarlo in veste di produttore e musicista è stato il giovane yankee-folker Steve Gunn, che gli ha messo a disposizione una band di validi e giovani artisti della propria etichetta. Un tocco di vitalità per un vecchio folker dimenticato un po' da tutti, nonostante l'accoppiata di album Rainmaker (1969) e Fully Qualified Survivor (1970) sia dalle parti del capolavoro, e nonostante tutta la sua produzione degli anni Settanta sia assolutamente da riscoprire e alquanto vicina alla filosofia di John Martyn in termini di commistione di tradizione e suoni e melodie rock. Per chi volesse scoprire quanto sia stato un chitarrista acustico di primissimo livello possiamo consigliare il precedente Fish del 2015 (interamente strumentale) o la raccolta Trainsong: Guitar Compositions 1967-2010 che già segnalammo su queste pagine qualche anno fa.

Ma per chi oggi si esalta tanto per l'avvento di Ryley Walker (noi per primi, come potete evincere dai nostri Poll 2016) o dello stesso Steve Gunn, è obbligatorio provare ad ascoltare questo nuovo album. Composto da brani nuovissimi e da qualche ripescaggio dei suoi vecchi album rinfrescato per l'occasione, il disco offre un sound elettro-acustico che esalta alla perfezione la tecnica di Chapman, ma anche la sua voce, che col tempo ha acquisito ancora più profondità. L'intenzione è quella di dare una visione dell'America di oggi vista da oltremanica, dove anche un brano pessimista e apocalittico come Memphis In Winter (già pubblicato nel 1999 nell'album The Twisted Road) torna di straordinaria attualità, oppure la spietata analisi dei disastri della finanza di Money Trouble. Qui l'America che Trump vorrebbe salvare chiudendosi a riccio nella propria autarchia è una bomba già esplosa economicamente nel 2008, che nessuna amministrazione, buona o cattiva che sia, potrà salvare dal declino.

Una visione velata dello stesso ironico cinismo e sarcastico pessimismo del giovane Dylan che lui stesso cita apertamente nell'apertura di A Spanish Incident (Ramon and Durango). Felici che 50 riporti in auge un artista che ha ancora molto da insegnare; per sapere se poi ha davvero ragione su tutto, ne riparliamo magari fra quattro anni.

lunedì 6 marzo 2017

CARL BROEMEL

Carl Broemel 
4th of July
[
Stocks in Asia/ Goodfellas 
2017]
www.carlbroemel.com
File Under: My Morning Pedal Steel

di Nicola Gervasini (24/01/2017)
Il futuro dei My Morning Jacket è tutto da scrivere, con un Jim James impegnato a far decollare una carriera solista che non decolla, e una produzione ormai saltuaria che continua a scontentare un po' tutti. Aggregato alla band nel 2005 per riempire ulteriormente il suono dell'album Z, ormai lontano ultimo titolo davvero consigliabile del combo di Louisville, Carl Broemel è stato anche protagonista nei tre dischi successivi (Evil Urges del 2008, Circuital del 2011 e The Waterfall del 2015), garantendo al sound della band di non perdersi completamente nei modernismi cercati da James, grazie alle sue inconfondibili chitarre acustiche e pedal-steel.

Broemel nel frattempo si è mosso anche per conto suo, pubblicando già nel 2010 un album solista che dava seguito al suo esordio del 2004, pubblicato quando ancora militava in band minori come gli Old Pike. Ma è con questo 4th of July che in qualche modo cerca di rassicurare tutti sul fatto che finché c'è lui, i My Morning Jacket non perderanno mai quell'anima "roots" che tanto pesava nei loro esordi. Il disco infatti riunisce le anime di folk tradizionale (Sleepy Lagoon), gli sperimentalismi del gruppo (la lunga title-track) e una ispirazione da indie-folker (Snowflake) in un colpo solo. Interessante, se non fosse che al momento sull'argomento esistono "competitors" ben più incisivi come Ryley Walker o Steve Gunn, giusto per citarne due. Ma è indubbio che il disco serva a riconciliarsi anche con il mondo di Jim James, echeggiato e, se vogliamo, anche proprio imitato, nella bella ballata Landing Gear, che altro non è che il brano che tanto vorremmo risentire dai My Morning Jacket.

Nulla è perduto però, si sa che prima o poi gli artisti tornano sui loro passi, se scoprono che il loro peregrinare in cerca di nuove inspirazioni non sta portando a nulla. E questo 4th of July sarà qui per questo, a ricordare che magari si può ripartire anche da una "simple-silly-song" come In The Dark o anche solo dallo strumentale acustico tutto fingerpicking di Crawlspace per ricostruire quel fantastico "wall of sound" di Americana e psichedelìa varia che avevamo apprezzato ai tempi del monumentale live Okonokos del 2006, dove Broemel fungeva addirittura anche da sassofonista. Qui il sassofono lo tira fuori dalla custodia solo nella finale Best Of, un brano che ci riporta ai tempi di Al Stewart grazie ad un ritornello tenuamente "poppish" e un sound sinuoso e quasi radiofonico. Non basta a fare di 4th of July un disco davvero importante, ma è sufficiente per passare 40 minuti in compagnia di un ottimo musicista.

mercoledì 1 marzo 2017

DR JOHN

Autori Vari 
The Musical Mojo of Dr. John. Celebrating 
Mac and His Music
[Verve/ Universal 2016]

www.nitetripper.com

 File Under: The Night Tripper Celebration

di Nicola Gervasini (12/01/2017)


Il ritmo magari non è più quello di un tempo, ma in epoca di crepuscolo del classic-rock la moda dei tribute-records non sembra conoscere crisi. Il prode Malcolm John "Mac" Rebennack, a voi tutti noto come Dr John (nonostante lui a inizio carriera avrebbe volute essere ricordato come The Night Tripper), ancora non aveva goduto di un simile onore, e visto che nessuno sembrava muoversi in tal senso, si è auto-organizzato un concerto autocelebrativo. Peccato non certo veniale per un artista ormai fondamentale per la musica di New Orleans e non solo, ammesso alla Rock and Roll Hall of Fame nel 2011, e ancora artisticamente vivissimo, se è vero che in questi anni dieci ha prodotto titoli belli e moderni come Tribal (2010) e Locked Down (2012).

Più che di tributo quindi, possiamo parlare di riepilogo di una eredità che resterà sempre imponente. Prodotto e sponsorizzato dal CEO della sua agenzia artistica Keith Wortman (la Blackbird, a cui è stata affidata anche l'organizzazione del mega-tour EVENTO per i 40 anni di The Last Waltz della Band, in partenza proprio in questi giorni), il prodotto prevede due cd e il DVD (o BlueRay se preferite) della serata. Star dell'occasione sono un rispettoso Bruce Springsteen, che duetta con il Dottore in Right Place Wrong Time, un John Fogerty che paga il suo forte debito con la musica del Delta in New Orleans, ma anche altri personaggi della musica roots che hanno impreziosito il menu con splendide (complimenti alla Blow Wind Blow di Jason Isbell), o comunque azzeccate (Back by the River di Ryan Bingham) interpretazioni.

Per il resto la parata prevede un sacco di amici di sempre (i vari componenti della famiglia Neville, George Porter Jr, Irma Thomas, Big Chief Monk Boudreaux, Terence Blanchard e altri), evidenti ammiratori della sua arte come Chuck Leavell, Anders Osborne, Warren Haynes o i Widespread Panic, o presenze sempre gradite come la gran voce di Mavis Staples. Singolare però che la chiusura del concerto John abbia voluto Sarah Morrow, una giovane e avvenente trombonista che lo segue nei suoi due più riconosciuti classici, Such a Night e I Walked on Guilded Splinters. Facile che immaginiate quindi il livello alto della serata, a noi solo il compito di confermare che la registrazione è degna dell'artista "tributato" e soprattutto non si respira mai quell'aria di fastidiosa dovuta presenza per ragioni contrattuali che spesso attanaglia molti tribute-record REGISTRATIin studio.

Per il resto non sto neanche più a dire che spero il disco serva ad incuriosire qualcuno a riscoprire il catalogo del Dottore, uno che ha avuto in carriera alti imponenti e bassi comunque sempre accettabili: so benissimo che voi che comprerete questo album già conoscete le sue canzoni, mentre per i neofiti magari consiglio prima una buona ed esaustiva raccolta. Che il Voodoo ce lo conservi.

:: La scaletta

DISC 1
Right Place Wrong Time - Dr. John and Bruce Springsteen )
Blow Wind Blow - Jason Isbell
My Indian Red - Cyril Neville
Somebody Changed the Lock - Anders Osborne and Bill Kreutzmann
Please Send Me Someone to Love - Dr. John, Aaron Neville and Charles Neville
Junko Partner - George Porter Jr. and Zigaboo Modeliste
Since I Fell for You - Irma Thomas
Stack-A-Lee - Tab Benoit
Life - Allen Toussaint
Street People - Shannon McNally
Goodnight Irene - Dave Malone
Big Chief - Big Chief Monk Boudreaux

DISC 2
Familiar Reality - Widespread Panic
You Lie - Warren Haynes
Traveling Mood - Chuck Leavell
Back by the River - Ryan Bingham
Let's Make a Better World - John Boutté
Lay My Burden Down - Mavis Staples
New Orleans - John Fogerty
COME RAIN ORCome Shine - Dr. John and Terence Blanchard
I Walk on Guilded Splinters - Dr. John and Sarah Morrow
Such a Night - Dr. John and Sarah Morrow

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