lunedì 17 febbraio 2020

THE PROPER ORNAMENTS

The Proper Ornaments
6 Lenins


[Tapete Records 2019]

theproperornaments.bandcamp.com

 File Under: Indie’s Greatest Hits

di Nicola Gervasini (16/11/2019)
Ho la seria tentazione di fare un fioretto e abolire, a partire dal 2020, l’uso della parola “indie”, ormai divenuta prefisso di troppe cose, e la cui funzione possiamo forse ritenere esaurita. Al massimo, visto che ormai gli steccati di genere sono un ricordo ormai lontano, potrebbe rimanere viva l’espressione “avere un’attitudine indie”, dove il termine non indica più l’effettiva indipendenza da una major discografica o da schemi modaioli “mainstream”, per dire i due significati forse originari, ma proprio una voluta ricerca di uno stile dimesso, sussurrato, “gentile” quasi mi viene da dire, che è ormai scelta stilistica aprioristica per molti nuovi artisti.

Premessa necessaria questa per presentare il terzo disco dei Proper Ornaments, “an Indiepop band from London, UK” leggo nella presentazione, e che ci starebbe a fare quindi sulle nostre pagine di cultori “yankee-friendly”, vi starete chiedendo. Semplice, qui il suddetto “Indie-pop” è uno specchietto per le allodole per renderli appetibili a chi ancora bada alle etichette, perché la musica contenuta in questo Six Lenins è piuttosto figlia dell’amore per chitarre e arpeggi del rock universitario americano degli anni 80, quello dei REM dunque, ma arriverei a scomodare i Galaxie 500 come ispirazione primaria, con melodie che guardano anche agli Spaceman 3. Fine dei rimandi, delle generalizzazioni e delle coordinate che vi servono anche solo per capire se avete voglia dell’ennesimo impasto di voci e chitarre sixties offerto dall’inziale Apologies, del drumming alla Moe Tucker di Crespuscolar Child, di una ballatona come Where Are You Now che pare cantata da Jeff Tweedy dei Wilco.

E si continua con A Song For John Lennon, esplicativa fin dal titolo, ma anche dal cantato “lennonesco” di James Hoare, già noto con i Veronica Falls prima di imbarcarsi in questa nuova avventura nel 2013 in compagnia del socio Max Claps (ex Toy), o con una Can’t Even Choose Your Name che cerca l’aria sbilenca di certe ballate di Elliott Smith. E si va avanti per 32 minuti, con testi che parlano di rinascita e del ritrovare sé stessi dopo i problemi di droga e disturbi mentali che hanno attanagliato i due artisti, tra echi di Belle & Sebastian (Please Realease Me) e giri stralunati alla Eels (Bullet From A GunSix Lenins). Non basta il momento più grezzamente acustico di Old Street Station e qualche timido inserto elettronico nella finale In The Garden però a donare all’insieme spunti di grande originalità, e alla fine Six Lenins suona come un disco-riassunto di una musica che, la si chiami indie-pop, o indie-folk, o quello che vorrete inventarvi, porta con sé l’inevitabile effetto nostalgico dei bei tempi andati di una qualsiasi antologia da classic-rock.

Nessun commento:

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...