Deadburger – La Chiamata
Snowdonia, 2020
Sono passati tanti anni e
soprattutto tante scene politiche dai tempi in cui i fiorentini Deadburger esordivano
ad Arezzo Wave nel 1996 presentando un brano contro il berlusconismo imperante
(Italiano Cyborg). Erano gli anni in cui molte band dell’underground italiano
trovavano buoni contratti, passaggi in radio, e (qualcuna) pure un certo
successo di vendite, grazie anche al positivo effetto scatenato dal successo
dei loro concittadini Litfiba, e anche loro l’anno dopo ottennero un certo
riscontro con l’uscita del primo album omonimo.
Ma da allora non è cambiata solo
l’Italia, sono cambiati parecchio anche loro, sia nella formazione (oggi basata
sul quartetto Vittorio Nistri, Simone Tilli, Alessandro Casini e Carlo
Sciannameo), sia nella proposta musicale, che ha trovato nell’etichetta
Snowdonia il luogo ideale dove realizzare progetti coraggiosi e innovativi. Già
nel 2013 pubblicarono un triplo cd con libro annesso (La Fisica delle Nuvole),
disco che portava a termine un lungo percorso creativo che aveva via via
abbandonato l’elettronica industriale alla Nine Inch Nails degli esordi, per
abbracciare un punk-rock d’avanguardia aperto alle più disparate sperimentazioni,
e ci riprovano ora con un progetto ugualmente ambizioso intitolato La
Chiamata, ancora una volta accompagnato da un progetto grafico di 68 pagine.
Il libro stavolta è una sorta di rivista di moderna antropologia chiamata Poor
Robot’s Almanack, pregna di trattati storico-politico-sociologici commentati da
immagini e dai disegni di Paolo Bacilieri, già noto per il suo lavoro per la
Bonelli (soprattutto per gli albi di Napoleone, ma anche Dampyr e Dylan Dog).
Il nuovo disco è comunque una ideale
prosecuzione del precedente, un dittico denominato “MirrorBurger” in cui La
Chiamata è l’altra faccia dello specchio di La Fisica delle Nuvole. I 7 lunghi
brani presenti sono difficilmente catalogabili come genere, ma quello che rappresenta
il fulcro del nuovo progetto è uno studio sui ritmi e le percussioni della
storia della musica, che ha portato a coinvolgere nelle sessions ben otto batteristi
diversi (che fanno nove con il tamburo a cornice suonato da Alfio
Antico), e spesso sovrapposti. Il centro del disco, non a caso, è la cover
di un brano del grande batterista jazz Max Roach, Tryptich. L’originale
era una sorta di comizio ritmato, declamato dalla moglie Abbey Lincoln, ai
tempi cantante e attivista per i diritti civili molto popolare, e pubblicato in
un disco dai chiari intenti politici antirazziali come We Insist! del 1960,
album che qualcuno considera il seme iniziale del free jazz, mentre la versione
qui presente arricchisce il gioco voce-batteria con un tappeto più elaborato
grazie ai campionamenti e all’elettronica.
L’album si apre invece tra suoni
e tamburi di guerra con un veemente brano alla Pere Ubu come Onoda Hiroo,
dedicato al famoso generale giapponese che rifiutò di arrendersi durante la
Seconda Guerra Mondiale, combattendo una guerra solitaria nella giungla fino al
1974,e da allora divenuto simbolo di onore e tenacia a tutti i costi contro
quelli che nel brano vengono definiti “gli indifferenti rinunciatari con gli
sguardi in basso come animali”. Un Incendio Visto da Lontano gioca più su
atmosfere dark, con un bel solo di piano di Nistri, mentre la title-track parte
rauca come un vero punk-rock, ma si risolve in un avant-jazz definito dai
dissonanti sax di Enrico Gabrielli e Edoardo Marraffa. Tamburo Sei Pazzo è una
suite con un ‘orgia di percussioni e batterie divisa in 4 parti, mentre chiudono
il disco la lunga Manifesto Cannibale, brano tipicamente da rock alternativo
italiano che rappresenta una sorta di riassunto spirituale (più nichilista che
programmatico) della band (“Deadburger è come i vostri eroi: niente di niente/
è come le vostre speranze, niente/ i vostri paradisi, niente di niente/ la
vostra modernità, niente/ l’uomo solo al comando: niente”), un pessimismo
piuttosto incattivito che anticipa il finale oscuro di Blu Quasi Trasparente,
dove intervengono anche le voci di Lalli e di Cinzia la Fauci dei Maisie.
Il titolo La Chiamata sa di proclama rivoluzionario,
un qualcosa che ricorda il “Venite intorno gente” con cui Bob Dylan iniziava l’inno
generazionale di The Times They-re a-Changing, eppure se la musica dimostra di credere
ancora nell’idea di un progresso e di una avanguardia garantita dalla
sperimentazione e dall’apertura mentale, soffia nelle parole del disco e nel
suo corposo booklet un’aria di forte disillusione, forse evidenziata da quella
citazione posta proprio in apertura, presa dal brano The Age Of Self di Robert
Wyatt (“Dicono che la working class è morta, che siamo tutti consumatori
adesso. Dicono che siamo andati avanti, e adesso siamo tutti, semplicemente,
persone. Ci sono persone che stanno spaventosamente bene ed altre parcheggiate
sugli scaffali, ma chi se ne frega del secondo tipo! Questa è l’era del
ciascuno-per-sé“). Come a dire che lo sapevamo già nel 1984 (quando uscì il
brano) cosa stava succedendo, allora quando è stato che ce lo siamo
dimenticati?
Nicola Gervasini
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