Van Morrison
Latest Record Project, Vol. 1
(BMG Rights Management, 2021)
File Under: I Fought The Law
Accade un fatto curioso riguardo
a Van Morrison. Va bene, nessuno credo possa discutere che Van “The Man” abbia
dato il meglio con la sua produzione passata. E va ricordato, per contro, che rispetto
a molti suoi contemporanei, lui è uno dei pochi che può vantare di aver tenuto
un livello eccelso anche negli anni 80 (riconosciuto da tutti ai tempi),
trovando il suono giusto per continuare a suonare moderno senza troppi
compromessi anche in quegli anni difficili per la prima generazione rock. Poi
però, a partire dagli anni 90, improvvisamente la sua musica è diventata
vecchia, anzi, forse il simbolo del vecchio per antonomasia per tantissime riviste
musicali (anche nostrane), un po’ per l’effettivo calo di ispirazione, unito quel
senso di “rimescolamento della stessa minestra” che i suoi dischi degli ultimi
30 anni hanno avuto, un po’ però anche per un insensato e aprioristico ostracismo
di una critica che lo ha trattato con più severità di molti suoi colleghi altrettanto
non più brillanti come un tempo, molto spesso ignorando completamente le sue
uscite discografiche. Invece per questo Latest Record Project, Vol. 1 si
sono tutti affrettati a parlarne, perché il disco è stato anticipato da una
serie di dichiarazioni e “instant-songs” che seguivano un po’ il filone
complottista del periodo covid, e quindi, per la prima volta dopo anni (o forse
proprio per la prima volta in assoluto), anche su Van Morrison c’è la
possibilità di montare un caso mediatico utile strappare click. Alcuni di quei
brani sono qui, ma neanche tutti, lasciando presagire davvero un secondo
volume. Qui si impone dunque una riflessione: da quando infatti riteniamo
davvero gli artisti (musicali, ma non solo) importanti per quello che pensano e
non per come lo esprimono, tanto da usare la sensatezza dei loro discorsi come
unico metro di giudizio della loro opera? Quando è successo che ci siamo
davvero curati del fatto che il loro pensiero fosse coerente, logico, etico, e
via dicendo? Ancora oggi di fatto ascoltiamo un sacco di testi rock che sono
infantili, ingenui, inutilmente visionari, esagerati, incoerenti, violenti, politicamente
e socialmente non più accettabili, eppure non smettiamo di farlo neppure quando
ce ne rendiamo conto. L’artista non è
colui che può tracciare un sentiero, l’artista è colui che ti fa scoprire della
sua esistenza, esprimendo con l’arte, e non con le teorie, le emozioni che quel
sentiero suscita in lui. Lasciamo ad altri il compito di tracciare sentieri
quindi. Il discorso vale per Van Morrison: stroncare questo album per le teorie
sull’attualità che contiene (come si è affrettata a fare molta stampa estera,
anche quella che da tempo lo ignorava) ha poco senso, perché qui bisognerebbe
invece notare che queste 28 canzoni, tra gli inevitabili alti e bassi di una
mole esagerata e, nel finale, anche un po’ sfiancante, sono le meglio cantate,
suonate, prodotte, e - in alcuni casi - anche scritte dei suoi ultimi anni. Non
che ci siano grandi novità di sorta rispetto “al suo solito”, anche se l’assolo
di chitarra quasi garage-rock di Where Have All the Rebels Gone è una
rarità nel suo menu, e ovunque impazzano degli azzeccatissimi cori in stile
doo-wop anni 50 che paradossalmente rendono più fresco e moderno ciò che
innegabilmente resta “vecchio” e passatista. Ma quella che è diversa è proprio
la sua motivazione a cantare, ad aggredire la vita con i primi testi che da
tempo non si adagiano nel quieto vivere della sua “splendid isolation”, per
dirla alla Warren Zevon. Anche a costo di scadere ogni tanto nel patetico (vedi
Why Are You on Facebook), un rischio che ritengo comunque doveroso che
un artista del suo calibro si prenda. Insomma, l’ultimo disco di Van Morrison
vede in pista di nuovo un uomo che esce dal suo guscio con le armi migliori che
ha, la voce e la musica, il che mi porta a sperare che “s’incazzi” ancora di
più per il volume due.
Nicola Gervasini
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