The
Delines - The Sea Drift
2022,
Decor/ Audiglobe 2022
Ci vorrebbero non uno, ma almeno
dieci speciali per spiegare al pubblico italiano quanto importante stia
diventando sempre più Willy Vlautin per la cultura americana. Noto (sempre
troppo poco purtroppo) nel mondo musicale per la sua creatura ormai abbandonata
nel 2016 (i Richmond Fontaine, una sorta di appendice ancor più letteraria
della lezione degli Uncle Tupelo), Vlautin è diventato uno dei più importanti e
prolifici romanzieri statunitensi, vero e proprio erede di una tradizione alla Steinbeck
fatta di province desolate e antieroi in fuga. Ma se ad un certo punto pareva
quasi che il mondo della musica non fosse più di suo interesse, ecco che un
progetto nato quasi per caso come i Delines lo ha riportato in prima linea.
Eppure ai tempi del loro esordio, l’ancora molto consigliabile Colfax del 2014,
la sigla doveva servire a lanciare più che altro la vocalist Amy Boone, già nel
giro dei musicisti da tour dei Richmond Fontaine fin dal 2003, ma ora che siamo
arrivati al quarto album (dopo Scenic Sessions, distribuito solo online nel
2015, e The Imperial del 2019) è evidente che l’ensemble, ormai assestatosi in
una numerosa formazione di sette elementi, ha assunto un ruolo stabile di primo
piano nel mondo della musica americana più legata alle radici. Di fatto anche
questo The Sea Drift non cambia le carte messe in tavola dai suoi tre predecessori,
puntando su un suono etereo, cinematografico (gli strumentali The Gulf Drift
Lament e Lynette’s Lament parlano chiaro in questo senso), ma soprattutto
sempre appoggiato sul sensibile tocco di Vlautin nella composizione dei brani,
piccoli episodi di una ipotetica serie tv sul tema della fuga nella cultura
americana, topic che pare essere ancora ben attuale nell’imaginario
d’oltreoceano. Musicalmente, oltre alla voce della Boone, rinfrancata dopo il
brutto indicente d’auto che l’ha tenuta ferma per tre anni, è però Cory Gray il
vero perno su cui poggia tutto, sia quando puntella i brani con le sue tastiere
dando un tocco quasi soul, sia quando li ricama con la tromba. Non è certo un
disco per chi cerca energia, anzi, più si addentra nella parte centrale, più
rallenta e si fa sognante, con un rimando sonoro che può anche rievocare il
country da camera dei Cowboy Junkies dei tempi d’oro. Ma sono ancora una delle
poche band che pensa la musica come racconto, che crede nella letteratura come
base di un testo, e che le canzoni migliori che parlano di noi, di un mondo, di
una nazione e di una maniera di vivere sono quelle che lo fanno attraverso personaggi
di fantasia che non hanno mai nulla di particolare se non quello di vivere
intensamente la loro voglia di riscatto, o semplicemente il loro modo di
arrendersi ai rimpianti e alla malinconia. Quello che questo album ha reso
perfettamente.
VOTO: 8
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