Basia
Bulat - The Garden
(Secret
City Records, 2022)
Esiste un sottogenere di prodotto
discografico che ho deciso di definire “Ho una intera orchestra a disposizione,
perché non ne approfitto per rifare i migliori brani del mio catalogo in
versione orchestrale? Mi pare una buona idea!”. Poi, se volete, troviamo un
acronimo alla definizione per mere questioni di brevità, ma il succo è quello,
ed è una tentazione a cui non sono sfuggiti grandi e piccoli nomi, non ultimo
recentemente anche Sir Paul Weller. Ora è il turno di Basia Bulat, autrice che arriva
a questo appuntamento con solo cinque album all’attivo, e con una carriera che,
dopo il botto iniziale di Oh, My Darling del 2007, ha vissuto fasi altalenanti,
non sempre all’altezza delle grandi aspettative che aveva innescato. Di fatto
lei è una bravissima artista che si muove con grande delicatezza nelle trame
del folk e della canzone d’autore, potremmo dire la vera figlia del matrimonio
artistico tra la sua connazionale Joni Mitchell e Sandy Denny. Uscita
soddisfatta ma non del tutto rinfrancata dall’esperienza del suo ultimo
sofferto album Are You in Love?, prodotto con il suo solito gusto un po’
barocco dal My Morning Jacket Jim James, Basia Bulat pubblica ora questo The
Garden, sorta di personale Greatest Hits rivisitato in chiave sinfonica, in
verità punto di arrivo di una serie di concerti in cui si è fatta accompagnare
da ensamble classici con grandi applausi. Non è un vero live però questo, semmai
un disco registrato in presa diretta da Mark Lawson (già ingegnere del suono degli
Arcade Fire) con la sola aggiunta delle chitarre e del basso di Andrew Woods e
Ben Whiteley. Il risultato è sicuramente affascinante, e concede alla Bulat
anche la giusta occasione per dimostrare doti vocali non indifferenti, e magari
non fa male a nessuno riascoltare alcune gemme del suo repertorio che la
voracità produttiva di questi anni 2000 rischia di gettare nel dimenticatoio
come Heart Of My Own, The Shore, Fables o la più tradizionale The
Pilgriming Vine. Quello che purtroppo però non accade è il miracolo di
sorpassare gli originali o affiancarsi come irrinunciabile alternativa, quello
che riuscì ad esempio, con gran sorpresa di molti, ai Portishead ai tempi del loro
splendido Roseland NYC Live. Più che altro nella fredda comunicazione di un disco
ascoltato da lontano nel nostro vivere quotidiano (a casa, in treno, in
ufficio, ovunque poi voi abbiate occasione di ascoltarlo), pare evidente che ci
si perda qualcosa del calore comunicativo di una proposta così intensa nei
suoni, ma nel suo complesso inevitabilmente omogenea e poco idonea a catturare
l’attenzione di un orecchio distratto. Resta comunque un punto della situazione
importante per lei, sperando possa essere preludio per quel salto di maturità
anche le ultime prove discografiche avevano lasciato un po’ in sospeso. E mi
raccomando, “play it low” e in silenzio.
Nicola Gervasini
VOTO: 7
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