Matthew Dunn
Love Raiders
Cosmic Range Records
Ogni era discografica ha le sue esigenze, e se negli anni novanta l‘entusiasmo per il formato CD ci ha portato moltissimi album che duravano anche più di un’ora, senza essere per questo considerati doppi, oggi in era Streaming le durate medie si sono drasticamente ridotte, tanto da non capire più troppo la differenza tra album ed EP. E poi ci sono quelli che non ci badano affatto, come Matthew Dunn, artista canadese che fino a pochi anni fa si firmava mettendo un “DOC” tra nome e cognome (e sarebbe curioso sapere come mai ha deciso di abbandonare il soprannome), e che vanta ormai più di vent’anni di fiera carriera discografica indipendente.
Di lui si era sentito parlare soprattutto nel 2023 con l’album Fantastic Light, che si era guadagnato ottime recensioni, e che riuniva una serie di collaboratori che a sorpresa scompaiono in questo torrenziale Love Raiders, eccezion fatta per il Dinosaur Jr. J Mascis, che qui porta in dote la sua abituale elettricità nella rauca Tally Ho!. Suonato e co-prodotto con l’amico Asher Gould-Murtagh, l’album è un classico doppio da 22 canzoni, in cui i due buttano nel calderone influenze di ogni tipo. Dotato di una voce portata a giocare su tonalità alte, con qualche sofferta inflessione un po’ alla Jesse Malin, Dunn suona quasi tutto, giocando anche non poco con le tastiere e sintetizzatori di vecchia data (It’s Over), e comunque non perdendo le proprie radici da vero songwriter di scuola canadese (le trame acustiche di Flower Maiden, uno dei brani più significativi della raccolta, non dispiacerebbero neanche a Bruce Cockburn).
Ma l’artista ha puntato soprattutto sulla varietà, giocando con il rock sia alternativo che radiofonico, ponendo subito in seconda posizione di scaletta la lunga e acida cavalcata chitarristica alla Neil Young di Algonquin, passando per qualche trama blues (Hideway), echi di jingle-jangle byrdsiani (Sad Masquerade), e giocando anche molto con un certo pop di Costelliana memoria (Forbidden Life). Insomma c’è tanto, inutile dire “a volte troppo”, visto che avendo spazio a volontà da riempire, si permette qualche passaggio strumentale un po’ fine a sé stesso (Rain Rain Rain, che era anche il titolo del suo penultimo album), dando la sensazione di aver approfittato dell’attenzione suscitata dal suo disco precedente per svuotare un po’ i cassetti di tante idee rimaste irrealizzate e accantonate nel tempo. Resta comunque un tour de force affascinante e neanche troppo stancante, grazie alla pluralità di toni e generi, anche se resta quella patina da produzione casalinga che forse penalizza un po’ il risultato finale.
Nicola Gervasini
Nessun commento:
Posta un commento