Mike
Reid & Joe Henry
Life and
Time
(2025,
Thirty Tigers)
File Under:
No Country for Old Men
La curiosità che salta subito
all’occhio, leggendo le note biografiche del settantottenne Mike Reid, è
il suo passato da giocatore professionista di Football Americano, quando ha
militato in NFL per 5 anni nei Cincinnati Bengals, interrotti
solo da un irrimediabile infortunio al ginocchio nel 1974. Da allora Reid è
diventato una figura da backstage del mondo del country, con non poche hit
scritte per conto terzi (soprattutto per le star di Nashville Ronnie Milsap e
Larry Gatlin), fino al grande successo di I Can't Make You Love Me (co-scritta
con Allen Shamblin), bestseller di Bonnie Raitt nel 1991. La sua carriera
discografica personale, infatti, inizia solo in quell’anno, quando la Columbia
gli dà fiducia sulla scorta di quella hit miliardaria (l’album Luck of the
Draw di Bonnie Raitt è arrivato a vendere fino a 7 milioni di copie). I due
album pubblicati nel 1991 e 1992 non vendono però quanto preventivato, e così
il nostro venne scaricato dalla major, e da allora ha pubblicato solo un del
tutto ignorato terzo capitolo nel 2012.
Singolare anche scoprire che,
dopo un lungo periodo di ritiro, il nostro, abbia conosciuto Joe Henry durante
uno dei mitici” Songwriting Camp” organizzati ogni estate a Nashville da Rodney
Crowell, quando le migliori penne della città si incontrano per 3 giorni scrivendo
canzoni in puro spirito di collaborazione. I due si sono piaciuti, e dicono di
aver scritto almeno 30 canzoni, di cui 12 sono quelle scelte per questo Life
and Time (altre sono già state prenotate da Shelby Lynne per un suo
prossimo album, ci anticipa Henry). Disco bello e atipico per entrambi, con un
coraggioso ribaltamento di ruoli che vede Reid prendersi carico di tutte le
parti vocali e della scrittura delle musiche, e Henry che scrive tutti i testi e
produce. Da notare anche il processo in questo
senso, visto che Reid ha registrato in casa tutti i demo per voce e piano, e
Henry ha inviato ad una schiera di fidati musicisti i nastri per sovraincidere gli
interventi degli altri strumenti. Di fatto quindi nessuno dei musicisti si è
mai incontrato, e tutti si sono auto-registrati in casa, con la sola eccezione
di Jay Bellerose e la stessa Bonnie Raitt, che hanno registrato la loro
parte in un vero studio di registrazione.
Tecnicamente per cui il gran
lavoro di un Henry in ripresa da una bruttissima malattia è stato una sorta di
taglia/incolla, per un risultato decisamente riuscito che sa di esibizione corale
e dal vivo. L’effetto finale non è dissimile dalle produzioni di Henry degli
ultimi quindici anni, con brani fatti di suoni intensi e molti silenzi, giochi
ad incastro tra chitarre acustiche e pianoforti, e tanto, tanto “mestiere” da
parte di entrambi. E, se vogliamo, questo rappresenta il pregio, ma anche il
difetto dell’album, che suona come un continuo flusso di parole e suoni, senza
ritmo, e con melodie solo accennate, che solo la grande maestria dei due
padroni di casa evita di far deragliare nella noia. Per contro il pugno di
canzoni, che Reid ha cantato davvero bene e con gran trasporto, confermano comunque
Henry come uno dei migliori songwriter in circolazione, e il consiglio è di
seguire brani come History o Weather Rose nel silenzio e con i
testi alla mano per apprezzare appieno un disco non per tutti.
Nicola Gervasini
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