giovedì 28 aprile 2016

BLACK MOUNTAIN

Si è fatto un gran parlare dei canadesi Black Mountain sul finire degli anni zero. Tre album alquanto acclamati (Black Mountain del 2005, In The Future del 2008 e Wilderness Heart del 2010) proponevano un mix decisamente vintage fatto di hard-riffs sospesi tra Black Sabbath e Led Zeppelin, momenti da brit-prog anni 70, uniti ad un certo gusto indie moderno (soprattutto grazie alla sognante voce di Amber Webber) e, in qualche caso, un vago ma non fastidioso pop-appeal.  Il risultato non era forse per tutti i palati, eppure venne apprezzato anche da differenti parrocchie di fans. Si è dovuto aspettare ben sei anni per ascoltare IV (Jagjaguwar), titolo anche questo zeppeliniano che consolida il valore della band, con l’aggiunta di qualche elemento di elettronica e sintetizzatori che sposta il baricentro di riferimento verso certo Aor sinfonico alla Rush o Styx (non suoni per forza come un’offesa). Basta ascoltare Florian Saucer Attack, forte di un giro di tastiera che potrebbe appartenere ai Depeche Mode, chitarre da garage band post-punk, e un cantato da eroina New Wave alla Kate Bush. Un bel paciugo direte voi, o anche il solito frappè di stili shakerati in un unico cocktail per incapacità di crearsene uno proprio. Eppure IV, con l’inserimento di tastiere che sanno addirittura di dark anni ottanta (You Can Dream), sta in piedi da solo, e ci rassicura anche un po’ sul fatto che sì, la golden age del rock and roll è cosa ormai lontana, ma grazie a band come i Black Mountain, siamo ancora distanti dall’arrivo dell’asteroide che estinguerà i dinosauri del rock e i loro giovani discendenti. Non si tratta più di genio dunque, ma del buon know-how di saper far suonare un pezzo come Constellations come se mimassero una ipotetica svolta hard dei Fleetwood Mac, o di far sembrare il lentone tutto archi e synth Line Them All Up una ipotetica versione di The Power of Love dei Frankie Goes To Hollywood cantata da Tori Amos. Riferimenti, ruberie, mezzi plagi (il tappeto di tastiere di The Chain non l’avevamo già sentito in un disco dei Pink Floyd?): quello dei Black Mountain è un processo di riciclo creativo in linea con i nostri tempi, in cui tutto quello che pare ormai inutile e sorpassato, si rigenera in una nuova unione. Non è forse tutta qui l’essenza del rock moderno?

Nicola Gervasini

THAO & THE GET DOWN STAY DOWN

THAO & THE GET DOWN STAY DOWN
A MAN ALIVE
Ribbon Music
***
La storia dei Thao & the Get Down Stay Down affonda le sue radici in California, dove Thao Nguyen, vocalist di origine orientale, imbastisce una band fin dagli anni dell’università (studiava sociologia). Da quei tempi sono passati tanti anni, qualche compagno si è perso per strada (ora la il trio è completato da Adam Thompson e Charlie Glenn), hanno realizzato sei album (a partire da Like the Linen del 2005), sono stati coinvolti in tante collaborazioni (con Mirah, Portland Cello Project),e hanno vantato presenze di rango nei propri album (We The Common del 2003 vedeva la collaborazione di Joanna Newsom). A Man Alive arriva dopo una pausa di quasi tre anni, iniziata dopo la pubblicazione del curioso Ep The Feeling Kind, in cui coverizzavano brani dei Troggs, Yo La Tengo e Melanie. E magari da qui possiamo partire per spiegare la loro musica, visto che i tre nomi citati potrebbero rappresentare mondi apparentemente inconciliabili, eppure tutti volti ad un’idea di pop fuori dagli schemi. Thao Nguyen è infatti una adepta di quel mondo femminile che rifugge la via semplice per la canzone pop, ma viaggia sempre sopra le righe (anche nell’uso della voce), non ha paura di osare, e soprattutto di rischiare di non trovare sempre la via giusta. A Man Alive ne è l’esempio più chiaro, con la sua serie di inafferrabili brani in cui si può riconoscere di tutto, da Kate Bush a Pj Harvey, da Siouxsie & The Banshees a Laura Nyro. Pop e rock, indie-pop e dark-music, folk e alternative rock, persino un certo ritmo funk alla Talking Heads, e tante analogie con la musica di Saint Vincent: dal rumorismo di Nobody Dies al pop di Departure, A Man Alive è un lavoro intrigante ma difficile da svezzare, che necessita molti ascolti, ma non è detto che poi davvero arrivi dove vorrebbe. Come dire che spesso le indubbie doti artistiche della Nguyen si perdono in un mare di troppe idee, troppi ritmi diversi, e nella indecisione se voler essere la nuova Bjork o la nuova Debbie Harry, finendo però per non essere ancora pienamente sé stessa. In ogni caso se la stravaganza è in cima alla lista delle conditio sine qua non perché un disco vi interessi, A Man Alive è sicuramente un album che fa per voi, complice anche la sregolata produzione di Merrill Garbus, musicista del duo di musica pop d’avanguardia Tune-Yards.

Nicola Gervasini

lunedì 4 aprile 2016

PRINCE


Abituato a fare le cose sempre in grande, Roger Nelson, in arte Prince, se ne è invece andato nel piccolo dell’ascensore di casa sua. Se ultimamente i mass media lo avevano un po’ trascurato, è bastata la sua morte improvvisa per scoprire come molti colleghi continuavano invece a riconoscerlo come uno dei più completi e talentuosi performer che abbiano mai calcato palco. Ammissioni di manifesta superiorità sono arrivate da ogni dove, da mostri sacri come Mick Jagger o Elton John, da esimi colleghi di black music come Stevie Wonder, o dalle popstar del momento (Lady Gaga, Beyoncè). Ma anche da mondi apparentemente lontani, come i vari artisti dell’undeground anni 80 che ne hanno sottolineato l’influenza, nonostante la sua appartenenza a quello show-business che loro stessi combattevano a suon di chitarre (tra i tanti, Bob Mould degli Husker Du e Paul Westerberg dei Replacements), o persino dal rock americano (Bruce Springsteen, ma anche molti nomi del mondo country). Eppure in vita, a dispetto di quel suo machismo sessuale poco finemente esibito in ogni posa e testo di canzone, Prince è stata rockstar timida e schiva, e sommessamente ci ha lasciato senza il botto finale, con la triste e poco affascinante storia di una banale overdose di antidolorifici. Nessuno sarà mai come lui, perfetto in tutto: cantante, ballerino, compositore, strumentista (suonava di tutto, ma in particolar modo resta un favoloso chitarrista), showman, e infine anche imprenditore di sé stesso. La sua tanto desiderata emancipazione dalle major e il suo non concedere nulla alle nuove piattaforme social lo avevano un po’ isolato dal mondo, e i suoi ultimi dischi (quattro solo negli ultimi due anni) erano diventati appuntamento fisso solo per i fans più stretti. Eppure per chi ancora aveva voglia di seguirlo, le sorprese e i momenti di grande musica non sono mai mancati. La sua folle corsa all’iper-produzione probabilmente genererà una quantità di inediti ancora per tanti anni a venire, ma il meglio forse lo conosciamo già, fosse anche solo quella sua produzione degli anni 80 che ha profondamente segnato e cambiato la Funky Music. Album come Purple Rain o Parade restano inarrivabili, eppure suonano ancora lontani dalla perfezione e dall’adrenalina esibita sul palco. Per ricordarlo dunque meglio riguardarsi il film/concerto di Sign Of The Times, la sua vera grande eredità per il futuro.

Nicola Gervasini

venerdì 1 aprile 2016

XIXA



XIXA
Bloodline
[Glitterhouse/ Goodfellas 2016]
www.xixamusic.com
File Under: desert in cumbia
di Nicola Gervasini (23/03/2016)


"XIXA are psychedelic. XIXA are cumbia. But, most of all, XIXA are rock 'n roll". La frase che caratterizza la cartella stampa del gruppo gioca non poco a creare confusione su una nuovissima e fantomatica sigla, i XIXA (da scrivere sempre tutto maiuscolo), sestetto per nulla di primo pelo proveniente da Tucson. Brian Lopez and Gabriel Sullivan, infatti, fanno parte della moderna formazione allargata dei Giant Sand, mentre Jason Urman (tastiere) Geoffrey Hidalgo (basso), Efren Cruz Chavez (percussioni) e il batterista Winston Watson hanno già tutti lunghi curriculum da session-man in vari ambiti (Chavez, a detta di Lopez, era talmente immerso nel mondo della musica latina, da non sapere nemmeno chi fossero i Led Zeppelin, Watson invece ha suonato con Bob Dylan e Alice Cooper).

Già titolari di un EP (Shift and Shadow), i XIXA possono essere considerati un tardivo quanto efficace prodotto di quel mondo musicale che ruota intorno a Howe Gelb, a cui fanno inevitabilmente riferimento con il loro mix di musiche latine e soluzioni rock. Impossibile dire qualcosa di nuovo in materia dopo anni di Giant Sand, Calexico, e in alcuni casi ci metterei pure i Los Lobos, che certi esperimenti di contaminazione li hanno provati prima di tutti. I XIXA provano ad esordire battendo la strada di mettere un po' di tutto nel calderone (anche elementi di musica araba in World Go Away e in una Down From The Sky che pare davvero un brano del Robert Plant in vena di musica d'oriente alla Kashmir), giocando molto sulle atmosfere e sulle ossessività percussiva della cumbia, a cui fanno ritmicamente riferimento nella maggior parte dei brani. Rock e psichedelìa effettivamente ci sono, ad esempio nel pasticcio di Pressures of Mankind, mix di rumorismo, tastiere da pop anni 60 e indiavolati ritmi latini che ammalia, ma lascia anche perplessi.

Se da un parte il combo ha un evidente savoir faire su come trattare il genere e eventualmente anche scardinarne la grammatica di base (Vampiro e Killer sono gli esempi più riusciti), quello che manca però è un frontman con una voce che non vada al di là di un soffocato e roco clone del modo di cantare di Howe Gelb. Come dire che ci sono i suoni, le idee, mancano però le canzoni e qualcuno che sappia farle arrivare al cuore dell'ascoltatore. Per questo i XIXA falliscono un po' nel distaccarsi completamente dal mondo da cui provengono, finendo per ambire al massimo ad essere quello che gli Autumn Defense di Pat Sansone sono rispetto ai Wilco: un validissimo, per quanto accessorio, side-project delle maestranze.

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