Iggy
Pop
Post
Pop Depression
(Loma Vista, 2016)
File Under: Post Bowie Depression
La dannazione eterna dell’Iguana Iggy
Pop è sempre stata quella di essere un animale da palcoscenico, forse
davvero uno dei più grandi intrattenitori da palco della storia, ma di non
essersi mai trovato veramente a suo agio all’interno di uno studio di registrazione.
La buona riuscita dei suoi album, fin dagli esordi con gli Stooges, è sempre
dipesa dai collaboratori e produttori scelti, ed è per questo che la sua
discografia è così varia nell’essere anche un continuo susseguirsi di alti e
bassi, perché da solo il nome di Iggy Pop suona a garanzia di concerti
perfetti, ma assolutamente non di dischi perfetti. Perfino le sue opere
migliori dipendono comunque dalla firma in sede di produzione, sia il Bowie di The Idiot o il Malcolm Burn che operò
pesantemente su American Caesar (che
resta forse ad oggi la sua opera più completa), o il Don Was che gli fece fare
un convincente viaggio nel mainstream con Brick
By Brick. Non sorprende quindi che nonostante venisse da una serie di
avventure per nulla memorabili (Skull
Ring o i tentativi di riciclarsi chansonnier alla francese di Preliminaires) o perlomeno discutibili
(le due reunion con gli Stooges, anche se il secondo capitolo già pareva più convincente),
Pop sforni a sorpresa uno dei suoi lavori migliori di sempre ricorrendo ad una
stretta collaborazione. Post Pop Depression è il titolo
perfetto per un disco confezionato più da
che con Josh Homme, mente musicale purtroppo oggi nota a tutti per i fatti
tragici di Parigi 2015, ma pur sempre una delle migliori eredità lasciate dal rock
degli anni novanta, quando già con i suoi Kyuss dimostrava un acume artistico
non comune. E non sorprende sentire che in questi nove brani la presenza di
Homme è sì evidente (come anche quella degli altri membri della band Dean
Fertita e Matt Helders degli Arctic Monkeys), ma alla fine tutti gli episodi
suonano come dei brani di Iggy Pop al 100%. Niente pseudo-punk o scimmiottamenti
del passato, i 9 brani mirano al sodo curando testi e arrangiamenti (con uno
stile che ricorda parecchio il John Cale meno intellettualoide di metà anni
settanta, vedi Gardenia), e finendo
ad apparire come il testamento del Pop di fine carriera, il suo Blackstar sfornato fortunatamente senza
bisogno di doverci anche lasciare. Poco importa che qua e là ci siano rimandi a
cose già fatte (American Valhalla è
la China Girl del 2000?), ritmi già sentiti (Chocolate Drops pare rubare il giro nientemeno che ad Another Brick
in the Wall dei Pink Floyd) e qualche furbata delle sue (Vulture), quando però Sunday o
la conclusiva Paraguay già suonano
come dei nuovi classici. E dopo la scomparsa di Bowie e Reed, potrebbe davvero
essere uno dei pochi in grado di sfornarne ancora.
Nicola Gervasini