Bruce Cockburn Bone on Bone [True North/ IRD 2017] brucecockburn.com File Under: San Francisco Nights di Nicola Gervasini (02/10/2017) |
Unidici anni fa esatti esordivo sulle pagine di Rootshighway con una tiepida recensione all'album Life Short Call Now di Bruce Cockburn. Unidici anni nella vita di un uomo sono tanti, e se di cose me ne sono successe tante (e giustamente non ve ne frega saperle), non lo stesso potrei dire del vecchio Cockburn, la cui vita artistica da allora è stata caratterizzata da un solo album (Small Source Of Comfort del 2011) e da una pigra attività da vecchio padre della musica folk canadese. Il viaggiatore aveva smesso di viaggiare, e anche un po' di creare. Bone On Bone arriva dunque atteso, ma forse neanche troppo, perché di Cockburn stavamo cominciando ad abituarci a parlare al passato. Ma si sa, i vecchi leoni dormono tanto, poi quando ruggiscono un po' di paura la fanno sempre, soprattutto se, come nel caso di Bruce, la voce comincia ad arrochirsi, tradendo una età ormai over 70, con una mancanza di fiato che si fa sentire.
Ma il grande artista è colui che fa di necessità virtù, per cui Bone On Bone ripresenta una scaletta assolutamente prevedibile, ma riletta con un nuovo modo di cantare. In più, fortunati noi, rispetto ai due precedenti dischi, i brani tornano ad essere di gran spessore. Il menu quindi è il solito, ma di uno dei migliori ristoranti in circolazione. Tra i piatti migliori ci sono il micidiale giro di acustica di The State I'm In, la ballata ispirata di 40 Years In The Wilderness, il talking di 3 Al Purdy's (qui produce Julie Wolf), il cajun/gospel di Stab At Matter, l'immancabile strumentale in fingerpicking della title-track, fino alla consueta concessione alla madrelingua di Mon Chemin. E poi, vista la nuova voce, perché non buttarla un po' sul blues, anche se non è il suo genere. Non che non ne abbia mai fatti in carriera, ma brani come Mama Just Wants to Barrelhouse All Night Long o Kit Carson, per citarne alcuni, erano blues-songs adattate alla sua vocalità non certo aggressiva, mentre qui in brani come Cafe Society o nel mezzo spiritual di Jesus Train, Cockburn si cala nel personaggio del vecchio blues-singer con più convinzione.
Produce come al solito Colin Linden, e stavolta al posto del violino che aveva colorato il sound del precedente capitolo, ritroviamo la cornetta di Ron Miles (un protégé di Bill Frisell) a fargli ritrovare quel vago gusto di jazz che insaporiva i suoi dischi degli anni Settanta. Da notare la presenza del nipote John Aaron Cockburn alla fisarmonica, protagonista negli intensi sette minuti di False River. Restano anche le sue caratteristiche note di copertina, con date e luoghi di scrittura dei singoli brani, ma il fatto che indichino per la maggior parte San Francisco, luogo dove ha registrato il disco, mostra quanto il viaggio sia ormai finito, e il disco sia frutto di una full-immersion compositiva di circa due mesi, fatto un tempo insolito per lui.
Sarà vecchio, ma che gli dei ce lo conservino anche così. Anche perché delle mie vicende non ve ne fregherà, ma, per la cronaca, il "vecchio Cockburn" si è risposato nel 2011 e ha avuto una figlia, e con la nuova famiglia ha abbandonato il Canada proprio per la "sunny" California. Che è un altro tipo di viaggio, certo non meno avventuroso.
Ma il grande artista è colui che fa di necessità virtù, per cui Bone On Bone ripresenta una scaletta assolutamente prevedibile, ma riletta con un nuovo modo di cantare. In più, fortunati noi, rispetto ai due precedenti dischi, i brani tornano ad essere di gran spessore. Il menu quindi è il solito, ma di uno dei migliori ristoranti in circolazione. Tra i piatti migliori ci sono il micidiale giro di acustica di The State I'm In, la ballata ispirata di 40 Years In The Wilderness, il talking di 3 Al Purdy's (qui produce Julie Wolf), il cajun/gospel di Stab At Matter, l'immancabile strumentale in fingerpicking della title-track, fino alla consueta concessione alla madrelingua di Mon Chemin. E poi, vista la nuova voce, perché non buttarla un po' sul blues, anche se non è il suo genere. Non che non ne abbia mai fatti in carriera, ma brani come Mama Just Wants to Barrelhouse All Night Long o Kit Carson, per citarne alcuni, erano blues-songs adattate alla sua vocalità non certo aggressiva, mentre qui in brani come Cafe Society o nel mezzo spiritual di Jesus Train, Cockburn si cala nel personaggio del vecchio blues-singer con più convinzione.
Produce come al solito Colin Linden, e stavolta al posto del violino che aveva colorato il sound del precedente capitolo, ritroviamo la cornetta di Ron Miles (un protégé di Bill Frisell) a fargli ritrovare quel vago gusto di jazz che insaporiva i suoi dischi degli anni Settanta. Da notare la presenza del nipote John Aaron Cockburn alla fisarmonica, protagonista negli intensi sette minuti di False River. Restano anche le sue caratteristiche note di copertina, con date e luoghi di scrittura dei singoli brani, ma il fatto che indichino per la maggior parte San Francisco, luogo dove ha registrato il disco, mostra quanto il viaggio sia ormai finito, e il disco sia frutto di una full-immersion compositiva di circa due mesi, fatto un tempo insolito per lui.
Sarà vecchio, ma che gli dei ce lo conservino anche così. Anche perché delle mie vicende non ve ne fregherà, ma, per la cronaca, il "vecchio Cockburn" si è risposato nel 2011 e ha avuto una figlia, e con la nuova famiglia ha abbandonato il Canada proprio per la "sunny" California. Che è un altro tipo di viaggio, certo non meno avventuroso.
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