Juanita Stein America [Nude/ Goodfellas 2017] juanitastein.com File Under: aussie country di Nicola Gervasini (12/10/2017) |
A metà degli anni zero gli australiani Howling Bells furono una delle tante scoperte dell'etichetta Bella Union, vera e propria fucina di talenti indie dei nostri anni, eppure non sono mai riusciti a diventare un nome di punta del genere, nonostante i loro quattro album pubblicati tra il 2006 e il 2014 abbiano sempre ricevuto riscontri più o meno positivi. Troppo indefinibile il loro mix musicale (se guardate Wikipedia si citano Hendrix e i Mazzy Star, e già capite la confusione), ma sicuramente a definire il suono della band è sempre stata la voce di Juanita Stein, non un'artista sconosciuta visto che ha già quarant'anni e una lunga gavetta negli anni 90 e primi duemila con i Wakiki.
America, titolo fin troppo semplice per definire dove si guarda musicalmente, è il suo primo album solista, e fa capire subito da quale luogo vengono certe svisate country-roots già presenti nei dischi della band. La copertina parla chiaro e soprattutto usa un linguaggio risaputo: America vuol dire l'epica dell'On The Road, l'idea di cinema che è possibile costruire dietro tutte le storie che la terra promessa sa raccontare. E vuol dire un suono che è quello di tante altre artiste statunitensi. E qui sta il primo difetto del disco, l'abusare di un immaginario ormai fin troppo consolidato. Non fa eccezione il video di Dark Horse che accompagna l'album, sognante road movie con tappa nei pub americani a suonare per pochi intimi, visite obbligate ai record-stores, e finale con omaggio ai mille buskers che allietano con chitarre più o meno accordate le strade delle città statunitensi. Tutto bello, ma tutto già visto, e non fa eccezione l'album, sicuramente interessante per le corde dei nostri lettori, quanto però anche un po' furbo nel cercarne a tutti i costi il plauso.
Il singolo e Florence che aprono l'album fanno comunque ben sperare, la seconda soprattutto è una ispirata ballata con un bell'intreccio di chitarre alla Chris Isaak che parla di estraniamento e trova la melodia giusta per insediarsi nella mente fin dal primo ascolto. Non scorre però così bene il resto: Black Winds è una eterea marcetta che ha lo stesso ritmo e le stesse pretese di viaggio psichedelico di White Rabbit dei Jefferson Airplane, la più suggestiva I'll Cry e Stargazer si ascoltano volentieri ma eccedono in sospiri, leziosità e tastierine, mentre quasi meglio va con Shimmering, etereo brano vicino a certe soluzioni vintage sentite dalla Nicole Atkins più recente. La Stein torna a dimostrare buona penna in Someone Else's Dime, ma poi si barcamena sullo stesso giro di Lay Lady Lay di Dylan costruendoci sopra una propria canzone chiamata It's All Wrong con buona teatralità ma poca originalità. Se Not Paradise, sorta di pop song in stile sixties, non aiuta a far risalire il ritmo, bene fa nella country-ballad Cold Comfort, un numero "alla Caitlin Rose" dice la Stein, prima che America chiuda il tutto con una lettera d'amore quasi tautologica visto che nessuno fino a quel momento avrebbe avuto dubbi sul suo amore per gli States e la musica di Roy Orbison e Loretta Lynn.
America, titolo fin troppo semplice per definire dove si guarda musicalmente, è il suo primo album solista, e fa capire subito da quale luogo vengono certe svisate country-roots già presenti nei dischi della band. La copertina parla chiaro e soprattutto usa un linguaggio risaputo: America vuol dire l'epica dell'On The Road, l'idea di cinema che è possibile costruire dietro tutte le storie che la terra promessa sa raccontare. E vuol dire un suono che è quello di tante altre artiste statunitensi. E qui sta il primo difetto del disco, l'abusare di un immaginario ormai fin troppo consolidato. Non fa eccezione il video di Dark Horse che accompagna l'album, sognante road movie con tappa nei pub americani a suonare per pochi intimi, visite obbligate ai record-stores, e finale con omaggio ai mille buskers che allietano con chitarre più o meno accordate le strade delle città statunitensi. Tutto bello, ma tutto già visto, e non fa eccezione l'album, sicuramente interessante per le corde dei nostri lettori, quanto però anche un po' furbo nel cercarne a tutti i costi il plauso.
Il singolo e Florence che aprono l'album fanno comunque ben sperare, la seconda soprattutto è una ispirata ballata con un bell'intreccio di chitarre alla Chris Isaak che parla di estraniamento e trova la melodia giusta per insediarsi nella mente fin dal primo ascolto. Non scorre però così bene il resto: Black Winds è una eterea marcetta che ha lo stesso ritmo e le stesse pretese di viaggio psichedelico di White Rabbit dei Jefferson Airplane, la più suggestiva I'll Cry e Stargazer si ascoltano volentieri ma eccedono in sospiri, leziosità e tastierine, mentre quasi meglio va con Shimmering, etereo brano vicino a certe soluzioni vintage sentite dalla Nicole Atkins più recente. La Stein torna a dimostrare buona penna in Someone Else's Dime, ma poi si barcamena sullo stesso giro di Lay Lady Lay di Dylan costruendoci sopra una propria canzone chiamata It's All Wrong con buona teatralità ma poca originalità. Se Not Paradise, sorta di pop song in stile sixties, non aiuta a far risalire il ritmo, bene fa nella country-ballad Cold Comfort, un numero "alla Caitlin Rose" dice la Stein, prima che America chiuda il tutto con una lettera d'amore quasi tautologica visto che nessuno fino a quel momento avrebbe avuto dubbi sul suo amore per gli States e la musica di Roy Orbison e Loretta Lynn.