Son Volt
Electro Melodier
(Thirty Tigers, 2021)
File Under: These Are The Times
Destino
strano quello di Jay Farrar e della sua creatura Son Volt, nati dalle
ceneri degli Uncle Tupelo (ma dobbiamo davvero ricordarvelo?) con premesse
persino più promettenti di quelle dell’antico compare Jeff Tweedy e dei suoi
Wilco, ma rimasti invece negli anni relegati ad un mondo di appassionati di genere,
mentre Tweedy nel frattempo cavalcava palchi in linea con le mode degli anni
2000. L’aspetto che spesso viene sottolineato della loro storia musicale è un
certo immobilismo stilistico, che rende i dischi dei Son Volt, ma pure le
stesse singole canzoni che li compongono, sostanzialmente sempre identici se
ascoltati da un orecchio non allenato, ma noi sappiamo che, al netto di una
possibilità espressiva non proprio vastissima della sua vocalità e della sua
concezione artistica, non è proprio così. Per questo Electro Melodier,
decimo album della sigla, ci è piaciuto subito, perché rappresenta una summa
delle anime della sua musica, che passano dalle chitarre rozze di Reverie alle
ballate sognanti come Arkey Blue (ma anche qui nel finale il break di
chitarra elettrica sottolinea i due tipici registri di Farrar).
Electro
Melodier è un disco da lockdown come tutti quelli che stiamo ascoltando di
questi tempi, nato durante il forzato stop al tour di Union, che Farrar
ha sfruttato positivamente con una serie di canzoni davvero ben scritte che fotografano
la situazione del suo paese, non più tanto con la vis polemica che animava il
precedente disco, quanto più con un taglio giornalistico di pura presa di coscienza
dello stato di una società, prima ancora di una nazione. In questo senso l’inserimento
di alcuni brani che fanno il punto anche sul suo lungo matrimonio (Lucky
Ones e Diamonds and Cigarettes, ballatona da brividi con la voce di Laura
Cantrell), assume un aspetto quasi di voluto parallelo tra vita privata e rapporti
sociali che si stanno rigenerando e ricostruendo dopo lo tsunami del Covid, che
ormai ci si rende conto anche nelle canzoni quanto sia una rivoluzione globale paragonabile
all’11 Settembre 2001.
Ma
è tutto il disco che appare essere particolarmente ispirato, con un anthem come
Living In The USA (springsteeniana non solo nel titolo) che tornerà
sicuramente buono nei prossimi tour, dure fotografie della realtà come War
On Misery (e qui siamo in puro campo gothic-country, come anche The
Levee On Down) o These Are The Times, che confermano Jay Farrar come
uno dei più meritevoli eredi della filosofia di Woody Guthrie, solo con qualche
scarica elettrica in più. Ma come aveva già provato nel valido The Search
del 2007, qui prova anche ad ampliare il sound con qualche inusuale intervento
(il moog di The Globe) e qualche volutamente non celato richiamo alla
storia del rock (i Led Zeppelin echeggiati da Someday Is Now). Un disco
comunque ottimista e pieno di speranza, nonostante i toni cupi e malinconici tipici
del suo autore, e forse era proprio quello di cui avevamo bisogno ora.
Nicola
Gervasini
Nessun commento:
Posta un commento