Wallflowers – Exit Wounds
2021 – New West
Che Jakob Dylan sia il figlio di
Bob è informazione inutile per un artista che ha ormai alle spalle sei album
con i Wallflowers e due come solista, ma con il papà ancora così in forma e
sulla cresta dell’onda, pure Exit Wounds, settimo capitolo della band, viene
presentato ovunque ancora come il disco “del figlio di”. Ingiustamente direi,
visto che nonostante Jakob ovviamente non possa (e credo mai abbia neanche tentato
di…) raggiungere la statura artistica e storica del babbo, la sua discografia
resta comunque una delle più importanti della musica americana degli ultimi 30
anni. Exit Wounds esce dopo un periodo di lungo silenzio, dopo che
l’ultimo capitolo Glad All Over nel 2012 aveva fallito un rilancio del marchio
anche tra un pubblico non esclusivamente roots-oriented. Di fatto la storia dei
Wallflowers dimostra una certa regolarità nell’alternare album di matrice
puramente “Americana” come l’esordio del 1992 (che anzi musicalmente si
identificava parecchio nel movimento H.O.R.D.E. dell’epoca), il vendutissimo Bringing
Down The Horse del 1996 o Rebel, Sweetheart del 2005, ad altri dove era
evidente il tentativo di trasformarsi in band radio-friendly con produzioni più
che ammiccanti (Red Letter Days del 2002 e appunto Glad All Over), con in mezzo
l’ottimo Breach del 2000 che resta forse il loro album più equilibrato tra le
due anime. Exit Wounds, come si suole dire, “riporta tutto a casa” in un
rassicurante sound da vecchio roots-rock anni 90, quasi come se Dylan Jr. si
sia reso conto che è inutile cercare di raggiungere un pubblico che mai potrà comprendere
in pieno le sue canzoni decisamente da era classic-rock, per cui meglio tener
caldi i fans della prima ora. Ne è segno anche il fatto che dopo anni i
Wallflowers escono dal mondo delle major e si accasano alla New West, etichetta
importantissima, ma pur sempre in una nicchia ben definita come quello del rock
americano. Con un risultato valido se sentito con orecchio allenato al genere,
probabilmente il loro sforzo migliore dai tempi appunto di Breach, sebbene
ormai in ritardo con la storia per diventare anche un disco importante per
tutti. Resta il fatto che purtroppo non abbia più senso parlare di “loro”
quanto di lui, perché la formazione attuale è completamente rinnovata, e non
ritroviamo nessuno dei musicisti delle formazioni più storiche (con perdite comunque
significative in termini di personalità come Rami Jaffee o Michael Ward) ma
qualche scafato session-man in più. Jakob comunque dimostra che il lungo stop
gli ha fatto bene perché brani come Maybe Your Heart's Not in It No More o I'll
Let You Down (But Will Not Give You Up) entrano di diritto nel suo songbook
migliore. Lo stile di base comunque resta il solito, con qualche momento in cui
si alza il ritmo come Who's That Man Walking 'Round My Garden, ma un clima
generale senza troppe spigolature, nel caso sempre smussate dall’intervento
della seconda voce di Shelby Lynne. Potrebbe essere il “car-record” giusto per
l’estate per chi avrà possibilità di viaggiare.
VOTO: 7
Nicola Gervasini
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