John Murry - The Stars Are God’s
Bullet Holes
Submarine
Cat records, 2021
Sarà
forse per la lontana - ma reale - parentela di uno dei suoi genitori adottativi
con lo scrittore William Faulkner, ma a John Murry è sempre piaciuto
infarcire non solo le proprie canzoni, ma anche le proprie storie personali, di
tanta letteratura. E così da qualche settimana ama raccontare ai giornalisti
che hanno avuto le interviste in esclusiva per il lancio di The Stars Are God’s Bullet Holes, suo atteso terzo album
solista, che il disco non solo è stato l’ultimo registrato ad Abbey Road prima
della chiusura per lockdown, ma che addirittura l’ingegnere del suono si era
dovuto portare via tutto in bicicletta per mancanza di mezzi pubblici. Ma in
fondo negli anni ogni suo disco e ogni racconto sulla sua vita (non ultima una
proposta di matrimonio avvenuta durante una intervista, con risposta
affermativa di lei arrivata via Twitter) sanno di “storytelling”, compresa
l’arte della citazione più o meno colta che anche qui assale l’ascoltatore fin
dal titolo della prima canzone Oscar Wilde (Came Here to Make Fun Of You).
Insomma, John Murry pare dirci che è inutile darsi tanto da fare a registrare
musica se poi intorno non ci ricami una storia da ricordare e ri-raccontare.
Sarà forse per questo che il suo nome venga spesso accostato a quello di Lou
Reed, uno che sempre più aveva elaborato una forma di rock vista quasi più come
mezzo per arrivare ad un racconto. Murry non ha forse la statura musicale (e
storica) di un Reed, ma ha prodotto due album molto validi come The Graceless
Age o A Short History Of Decay, infarciti di storia musicale americana, sia
quella rurale della provincia, che quella più avanguardista di New York, con un
amabile gusto retrò che rappresenta forse il suo limite, ma gli va dato atto di
essere nel bene o nel male uno degli artisti più eclettici e che meno si
accomoda su un risultato raggiunto. Ne è la prova anche questo nuovo album, che
è già un libro fin dal titolo, con una storia da raccontare che è la sua
collaborazione con John Parish, l’uomo giusto per assecondare il suo amore per la
new wave e per certa elettronica degli anni 90, con in aggiunta anche il fatto
di essersi definitivamente trasferito in Irlanda a respirare sapori britannici.
Fatto sta che il nuovo album è un riuscito mix di krautrock, dark anni ‘80,
trip-hop ’90, e comunque prove da cantautore puro (la bella Ones + Zeros) che allargano ancora
di più il suo raggio d’azione stilistico. Quello che va notato è che però resta
molto più personale la sua scrittura (brani come Time & A Rifle e Perfume
& Decay cominciano ad avere un suo marchio di fabbrica), che le sue
soluzioni musicali, dove il gioco del rimando, dell’omaggio e della citazione,
a volte sfocia fin troppo nella voluta ricerca del paradiso dell’ascoltatore nostalgico.
Tanti racconti che poi alla fine ci parlano
di una artista che semplicemente non ha mai smesso di parlare con un passato
che spesso non è neppure suo, come dimostrano le cover che abitualmente piazza
a fine di ogni album o durante i concerti. Stavolta tocca a Ordinary World dei Duran Duran, a sorpresa
forse una delle pop-song meglio sopravvissute nei giorni nostri dagli anni novanta,
che lui riveste di nuovi sapori con aria da scafato artista.
VOTO 7,5
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