Ryan
Adams – Big Colors
2021, PAX AM
Pare che fortunatamente le
polemiche scatenate dal ritorno discografico di Ryan Adams con l’album
Wednesdays non siano state abbastanza forti dal fermare la sua voglia di
ritornare sotto le luci della ribalta. Un bene per chi comunque continua ad
apprezzare il suo grande sforzo produttivo e artistico, e così dopo pochi mesi
siamo qui a parlare di Big Colors, secondo capitolo di una trilogia
registrata ormai più di tre anni fa, ma rimasta nel cassetto in attesa di tempi
meno burrascosi per la sua reputazione. Anche qui pare che qualcosa sia poi
stato variato dal progetto originario, e già Wednesdays era uscito in una
versione ridotta rispetto a quella annunciata tempo fa, ma in attesa del terzo capitolo
(che potrebbe uscire già comunque entro la fine del 2021), fa piacere constatare
come Adams, pur nella sua inarrestabile “iper” (e forse anche “sovra”) produzione,
riesca comunque a dare una personalità precisa alle proprie creature
discografiche. E così se Wednesdays esaltava il suo lato più intimista e cantautoriale,
Big Colors segue invece la vena più radio-friendly di album come Prisoner o
Cardinology. D'altronde la title-track posta in apertura ribadisce tutto il suo
mai nascosto debito verso il pop inglese (il suo primo album solista si apriva
con una discussione su Morrissey ad esempio), ma è tutto il disco che cerca
nuovamente quella perfetta sintesi tra rock americano e un gusto melodico tutto
“british” che aveva già trovato la sua perfezione formale in Love Is Hell del
2004, tanto che persino la cover Wonderwall degli Oasis pareva un suo brano.
Stavolta però il risultato è alterno, perché l’utilizzo di una produzione (c’è
Don Was ad aiutarlo) che riporta in evidenza le batterie nuovamente “grosse”,
ritornate in auge in questi anni dieci (dopo che l’indie-folk le aveva fatte sparire
per lungo tempo), a volte pare un po’ forzato e non necessario (Fuck the Rain
non perderebbe vigore senza ad esempio), e i risultati migliori sembrano
arrivare laddove Ryan si concentra più sulla canzone (Manchester o le più
convenzionali What Am I e In It For The Pleasure) che sull’effetto che desiderava
ottenere. Resta che ci sono episodi che escono con successo dai suoi schemi
abituali (l’hard-rockabilly di Power ad esempio), ma altrove cerca un suono da
rock FM anni 80 che non gli si addice troppo. Se paragonassimo infatti Do Not
Disturb ad un brano del miglior Chris Rea credo che neppure lui si scandalizzerebbe,
ma cose come I Surrender o Middle Of The Line, per quanto piacevoli, ha smesso
da tempo di farle persino Bryan Adams, quello con la B in più. Eppure, sebbene
il disco non abbia lo stesso spessore del suo predecessore (e credo che verrà
in futuro annoverato tra i suoi episodi minori), Big Colors riesce a
confermare ugualmente la statura eccezionale di questo artista, ancora capace
di sbagliare con gusto.
VOTO: 6,5
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