Jackson Browne
Downhill from Everywhere
File Under: He’s Alive
Dopo quasi 55 anni di carriera (These
Days la scrisse che era ancora più che minorenne), e giunto al quindicesimo
album di inediti con questo nuovissimo Downhill from Everywhere, Jackson
Browne credo non debba più dimostrare più niente a nessuno. C’è da
chiedersi magari perché noi che lo seguiamo da sempre, sentiamo ancora il
bisogno di ritrovarlo di tanto in tanto a riproporci sempre lo stesso disco
immutato ad anni, sempre a base di quelle ballate lente e sognanti, cantate con
la sua bellissima voce indolente e monotonale. Eppure, quello è il suo marchio
di fabbrica, e su questa formula ha costruito veri capolavori (direi tranquillamente
tutti i suoi album degli anni Settanta), e tante buone canzoni ancora sparse
nei suoi dischi successivi. Sempre con sole due eccezioni alla regola, quel
paio di brani un po’ più in up-tempo che si concedeva in ogni disco, e la
saltuaria svisata nel mondo del tex-mex (Linda Paloma forse il brano più
celebre della serie). Ma, di fatto, anche nel periodo degli anni Ottanta, in
cui i suoni della sua band cercavano di aggiornarsi al tran-tran “tastieroso”
del periodo, la ricetta non è mai troppo mutata. Anzi, il suo album peggiore
resta forse World In Motion del 1989, e guarda caso è il più
stilisticamente vario. Questo per dire che c’è poco da discutere su un nuovo
album di Jackson Browne, che, come al solito, presenta le tre modalità sopradescritte
senza alcuna sorpresa, e in cui persino lo scafato chitarrista Greg Leisz
cerca di suonare come l’assente David Lindley in ogni brano, e la validissima
band assemblata per l’occasione riesce a sembrare la versione colta degli Eagles
in maniera più che credibile. La sorpresa semmai è arrivata dal video di My Cleveland
Heart, racconto della sua malattia in tempi di Covid (per la quale quasi ci
stava lasciando le penne), trattata con ironia in un video con scene splatter
da Grand Guignol che sicuramente ha fatto la sua giusta impressione. Ma le
canzoni poi restano quelle sue di sempre, con focus su testi che continuano a
raccontarci le sue visioni personali o politico-sociali con la lucidità di un
uomo di altri tempi (The Dreamer è una sorta di testamento in tal senso),
cosciente poi di rivolgersi ormai a quei fans storici che ancora preferiscono
ascoltare la sua voce, piuttosto che cedere a nuovi linguaggi musicali. Nulla
di male, Browne è una garanzia anche quando viaggia poco sopra la sufficienza
come in questa occasione, e bene o male piazza sempre quel paio di colpi come
la title-track o A Song For Barcelona che ti fanno dire “ok, i tempi d’oro
sono lontani, ma lui ancora sa il fatto suo”. Felici dunque che Browne sia ancora
qui a raccontarci al sua vita, non ci perderemmo mai una parola, ma che
l’attesa di un disco importante anche per questi anni non possa passare dalle
sue parti è un fatto che sapevamo ormai da tempo, perlomeno da quel I’m Alive
del 1993 che è stato l’ultimo disco veramente necessario della sua carriera.
Nicola Gervasini
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