Billy Bragg
The
Million Things That Never Happened
(Cooking
Vinyl, 2021)
File Under:
Once Were Warriors
Capita a volte di sentire dei
dischi formalmente ineccepibili, ma di cogliere un qualcosa, spesso non subito
definibile, che disturba o stona. Mi è capitato ad esempio con il nuovo album
di Billy Bragg, The Million Things That Never Happened. Il grande
combattente folk inglese è ormai da qualche tempo un artista di american-music
a tempo pieno, diciamo da dopo l’incontro fondamentale con i Wilco via Woody
Guthrie. E così le sue produzioni degli anni 2000 hanno seguito la linea di una
elegante e sempre più raffinata roots-music americana che ha prodotto titoli
belli come Tooth & Nail (2013) e Bridges Not Walls (2017) e la collaborazione
di puro interesse storico nella tradizione statunitense con Joe Henry (Shine
a Light: Field Recordings from the Great American Railroad). Insomma, che
non possa essere più il Bragg barricadiero degli anni Ottanta lo sapevamo già, e
probabilmente quell’artista è andato in pensione insieme al suo bersaglio
preferito, Margareth Thatcher. Ma il Bragg che sentiamo in queste canzoni
appare subito diverso anche da quello più recente proprio nel tono della voce,
che è invecchiata, scesa di tono, e ha forse volutamente perso quel tocco
british “alla Morrissey” che caratterizzava il suo canto nei giorni gloriosi. Ma,
soprattutto, quello che un po’ si fa fatica a digerire subito da fans di
vecchia data, è che manca in quella voce l’urgenza di dire qualcosa di
importante, quando ora ci si sente invece la richiesta di pazienza
nell’ascoltare storie che non sono più solo di rabbia per quello che succede
nel mondo, ma vicende personali. “Ma ora parliamo un po’ di me, per cui
sedetevi tranquilli e ascoltate” sembra dire questo Bragg, calmo e intimista
anche nei suoni e in una produzione molto levigata, con addirittura qualche
leziosità radio-friendly come Pass It On. Significativo, ad esempio, che
nella scrittura di uno dei brani più convincenti del disco (Mysterious
Photos That Can’t Be Explained), ci sia coinvolto addirittura il figlio,
quasi a declamare la voglia di una dimensione più intima e famigliare per la
sua vecchiaia. Il che non vuol dire assolutamente che si stia ritraendo dal suo
ruolo di guida di pensiero comune (“Sono abituato alle persone che ascoltano
quello che ho da dire / E trovo difficile pensare che potrebbe essere d'aiuto
se mi allontanassi” canta in Mid-Century Modern), ma semplicemente non è
più tempo che sia lui, a 63 anni, a giudicare i tempi e dettare i modi per
viverli (“I ragazzi che tirano giù le statue, mi sfidano a vedere il divario
tra l'uomo che sono e l'uomo che voglio essere” canta). Lui stesso, presentando
il disco, ha scherzato sul fatto che non può essere un neo-nonno che deve
mettersi gli occhiali per leggere la setlist da suonare nei concerti, il leader
di una protesta, eppure anche in queste canzoni serpeggia sempre qua e là
qualche indicazione sulla via da seguire, e qualche frecciata più o meno
evidente al nuovo avversario di casa Boris Johnson. Per il resto si parla di
amore per una moglie che si è ammalata proprio durante il lockdown e di un
senso di solitudine generale che pare non più solo politico, ma personale. Un
disco importante per lui, ma che forse finisce a renderlo meno unico e
inimitabile e più simile a tanti altri bravi cantautori di genere. O forse è
solo un disco che necessita tempo per diventare importante anche per noi, e
ovviamente siamo sempre disposti a concederglielo.
Nicola Gervasini
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