Felice
Brothers
From
Dreams to Dust
(Yep Roc – 2021)
File Under:
Dust to Dust
Davvero strana la storia dei
Felice Brothers da un punto di vista del “successo” (per quanto quantificabile
esso possa ancora essere). Osannati un po’ ovunque anche a dismisura ai tempi
di Tonight at the Arizona e dell’omonimo del 2008, paradossalmente non giustamente
riconosciuti per il loro disco più maturo (Yonder is the Clock), la band
Ian e James Felice vive da qualche anno una sorta di oblio. Non nelle nostre
pagine, dove non abbiamo mai smesso di notare che, dopo aver perso un po’ di
credibilità sbagliando il disco all’insegna del “proviamo ad essere moderni anche
noi” (Celebration, Florida del 2011), la loro produzione dell’ultimo decennio
ha avuto una linea qualitativa tutt’altro che discendente. Anzi, From
Dreams to Dust potrebbe addirittura rivelarsi il loro disco migliore,
perché sarà la forza dell’esperienza, ma stavolta i quattro (ai fratelli si
aggiungono oggi Will Lawrence e Jesske Hume) ce l’hanno davvero fatta a mettere
la loro grande ispirazione da American-Band ben evidenziata da album già molto
validi come Undress o Life in the Dark, con uno spirito più in
linea con gli anni 2000. Che sia la volta buona che riusciamo a farli ascoltare
anche a chi li riteneva “troppo country”? Non che ci siano grandi
stravolgimenti, ma la straordinaria apertura di Jazz on the Autobahn,
storia di una coppia in fuga da vari disastri, penso sia un brano che ha una carica
emotiva che travalica i gusti di genere. Per il resto il disco vive sul contrato
tra tempi più movimentati (To-do List) e ballate sofferte, con testi che
riflettono sullo scorrere del tempo e la consapevolezza di stare invecchiando
in un mondo che non si ha più la forza (e forse la voglia) di cambiare
(l’evocativa Land Of Yesterdays). Basta comunque sentire il drumming
ossessivo di Money Talks (altro episodio davvero notevole) per capire
l’ottimo sforzo produttivo della band, che per il resto offre un repertorio
comunque in linea con la propria filosofia, come le sognanti aperture melodiche
dell’ipnotica Valium, le riflessioni sulla celebrità di Inferno (“Who's
that singing in the land of the falling rain? I think it's Kurt Cobain”) e
l’ottimo up-tempo di Celebrity X, e qualche country strascicato come Silverfish.
Tra gli ospiti del disco troviamo i Bright Eyes Nathaniel Walcott alla tromba e
Mike Mogis alla pedal steel, ma per il resto i quattro hanno fatto tutto da
soli, dimostrandosi ormai gruppo su cui contare a colpo sicuro. Non perdendo tra
l’altro mai quel pizzico di ironia che li ha sempre caratterizzati, quella che
negli 8 minuti conclusivi di We Shall Live Again, bellissimo canto
corale di riconciliazione con lo spirito, gli fa cantare Anche se le nostre
religioni sono le stesse dei piccioni, da Francesco d'Assisi ai fan degli
AC/DC, tutti vivremo di nuovo, non compromettendo la tensione emotiva di un
disco davvero intenso.
Nicola Gervasini
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