Nick Cave & The Bad Seeds Sulla rete: nickcave.com |
Quando vi dicono “ho una buona notizia e una cattiva” quale vorreste sapere per prima? Facciamo che decido io e per parlarvi di Wild God, un album di cui avrete ormai sentito parlare alla nausea (e magari avete già anche sentito l’album stesso, se siete sopravvissuti al tour de force di Ghosteen nel 2019), parto da una constatazione a posteriori decisamente positiva: Nick Cave ha ricominciato a scrivere canzoni. Che è un mestiere diverso dal riversare fiumi di parole in musica per raccontare la propria esperienza umana, mai così intensa nel bene e nel male come nei suoi ultimi quindici anni, ma è un difficile lavoro di costruzione e incastro di versi e melodie che il nostro pareva sempre più essersi dimenticato, o più semplicemente se ne era disinteressato.
E’ stato un processo di lento abbandono dell’aspetto musicale come elemento centrale nella sua arte, nato forse all’indomani dell’abbandono dei Bad Seeds da parte di Blixa Bargeld, che non era uno che pesava in termini di quantità, ma chi li ha visti in azione assieme sul palco si ricorderà di come Blixa sembrava essere di ispirazione a Nick anche solo con la sua presenza e il suo sguardo, quasi che lo controllasse dicendogli che “va bene fare canzoni verbosissime Nick, ma ricordarti che sei prima di tutto un musicista”. Ma soprattutto relegando sempre più i Bad Seeds non più a laboratorio di idee e talenti, bensì a semplice band di accompagnamento, in cui il solo Warren Ellis pare avere diritto di parola e può permettersi di rubare la scena al titolare, strabordando non poco con la sua presenza.
Wild God invece continua il percorso di racconto di viaggio umano personale di Cave, che ha smesso da tempo di inventarsi storie (come paiono lontane le Murder Ballads dal suo scrivere di oggi!), e pensa ormai solo a completare una lunga autobiografia spirituale. Qui siamo al momento della conversione, e stavolta perlomeno ce la racconta recuperando la voglia di scrivere anche melodie (Joy) e di riesumare magari la sua marca stilistica più amata (il giro di piano di Final Rescue Attempt per esempio), e tornando, se non ai tempi d’oro, perlomeno a quell’idea personale di soul dei tempi di Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus.
Ma c’è quella cattiva notizia: se il musicista è ritornato e gliene siamo grati, qualcosa ancora non gira del tutto a dovere. E non è tanto il discorso che non ha più l’ispirazione di un tempo, che tanto nessuno la pretenderebbe, quanto che il nostro pare avere un po’ le idee confuse su quale direzione prendere per affrontare la parte finale della sua carriera. E così Wild God si agita con arrangiamenti magniloquenti tra soluzioni varie, non certo sperimentali, se consideriamo che la scelta di buttarla sui gospel, con cori e controcanti da chiesa, per raccontare il suo stato spirituale, suona scontato al limite del banale (ma voi direte, pure Bob Dylan ci cascò, per cui…) e da lui forse ci aspetteremmo qualche provocazione in più, ma poi anche quando ritrova il suono dei Bad Seeds (soprattutto nella seconda parte del disco), al massimo vengono in mente i bozzetti minori di Nocturama, e non certo i classici.
Il problema è che se Nick Cave con questo album dimostra comunque di essere vivissimo (intendiamoci, la “faccetta gialla” è perché da lui pretendiamo di più, perché fosse un esordiente, saremmo al bacio accademico), molto meno lo dimostrano i suoi compagni di viaggio. E a questo punto mi chiedo se non sia il caso di abbandonare la sigla Bad Seeds al suo destino, perché ormai qui è tutto troppo personale e tutto troppo “suo” per poterlo condividere con partners non più in grado di aggiungere benzina ad un fuoco che resta comunque caldissimo.
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