lunedì 24 marzo 2025

Benjamin Booker

 

Benjamin Booker  -  LOWER

2025 - Fire Next Time Records

 

Siamo un po’ sommersi e bombardati da una quantità spropositata di album e nuovi artisti da mettere alla prova, che alla fine si rischia di dimenticarsi un poco di quelli che già qualcosa lo avevano dimostrato. E’ il caso di Benjamin Booker, uno che con i due primi album (l’omonimo del 2014 e Witness del 2017) aveva portato una ventata di freschezza nella black music, con un suo personale mix di blues, rock e atteggiamento indie che aveva destato interesse e la sponsorship di Jack White. Anche dal vivo Booker fu di scena in parecchi festival in quegli anni, rubando spesso la scena a nomi più blasonati. Sono passati 8 anni e di lui quasi ci si stava dimenticando, ma questo LOWER (scritto tutto maiuscolo come anche i titoli delle canzoni) ha tutta l’aria di essere uno di quei lunghi parti artistici che lascerà più il segno.

La mossa a sorpresa è quella di affidarsi al produttore Kenny Segal, guru del mondo hip-hop che ha portato in dote un approccio completamente diverso, non so se definirlo moderno visto che poi il risultato, per quanto sperimentale, non è affatto nuovo. L’iniziale BLACK OPPS rende subito chiaro il concetto, con il suo riff hard-blues sommerso da voci filtrate e tastiere, o nell’ipnosi elettronica subito successiva di LWA IN THE TRAILER PARK. La tendenza è fare un gran mix di tante ispirazioni, persino quelle più “rootsy” che animano le chitarre di POMPEII STATUES, mentre SLOW DANCE IN A GAY BAR tiene fede al titolo con un suadentissimo dream-pop da struscio sulla pista della discoteca.

Ma la caratteristica da non dimenticare è anche quella dei testi fortemente polemici su società e politica americana, con lo zenith raggiunto in REBECCA LATIMER FELTON TAKES A BBC, brano decisamente sperimentale che sbertuccia una nota avvocata suprematista e nemica dichiarata della black-community, e se non capite il senso del titolo, provate a inserirlo nella ricerca di una qualsiasi sito pornografico e vi sarà tutta chiara l’ironia.

Il disco intrattiene bene, anche se poi a lungo andare, svelate le nuove carte, il gioco si fa più ripetitivo, ma si fanno ancora notare la quasi jazzy SAME KIND OF LONELY con il suo suggestivo video e i tanti samples usati per la base, e la finale HOPE FOR THE NIGHT TIME, mentre SHOW AND TELL si segnala come l’unico brano in continuità col suo passato anche nella produzione più acustica e tradizionale.

Quello che però piace del disco è che le atmosfere apparentemente glaciali create da Segal ben si sposano con i toni per nulla accomodanti di uno dei dischi più feroci dal punto di vista della lotta e orgoglio razziale che si sia sentito negli ultimi anni, con semplici slogan di rabbia e rivolta (SPEAKING WITH THE DEAD) che riportano ad un clima degno dei più riottosi anni 60. Un buon segno in un’era in cui da più parti si sottolinea quanto la musica abbia perso ornai totalmente la propria forza rivoluzionaria e la propria influenza sulla società. Non che il disco di Booker possa cambiare qualcosa dei tempi bui in cui è stato concepito, ma probabilmente il tentativo di fare un nuovo There’s a Riot Going On di Sly & the Family Stone per club, ad uso e consumo dei disc jockey, è perlomeno encomiabile.

NICOLA GERVASINI

VOTO: 7,5

mercoledì 19 marzo 2025

Lilly Hiatt

 

Lilly Hiatt

Forever

(New West, 2025)

File Under: My House is Very Beautiful at Night

L’anno scorso ha compiuto 40 anni Lilly Hiatt, e, in puro stile no-look/no-make-up alla Lucinda Williams, non fa nulla per nasconderli anche nelle foto incluse nel nuovo album Forever, il sesto di inediti di una carriera iniziata discograficamente nel 2012. Il padre John si è sempre tenuto un po’ disparte nei suoi dischi, quasi a non voler sembrare ingombrante, ma è evidente che l’evoluzione artistica della figlia la stia portando sempre più sui suoi territori. Significativo poi che la sua voce faccia capolino in un amorevole e paterno messaggio vocale al telefono posto nel finale della conclusiva Thought, un brano sui bei tempi andati della High School.

D’altronde Forever è un disco sull’essere famiglia, quella che lei, dopo anni di difficile recupero dall’alcolismo, è riuscita costruire con il marito (e qui produttore e chitarrista) Coley Hinson, che ha allestito uno studio casalingo per registrare 29 minuti di belle canzoni che parlano d’amore (Forever), di uomini a cui appoggiarsi (Man) e in generale di una nuova dimensione casalinga (la bella e suadente Evelyn’s House).

E’ un disco sul recupero di una sfera personale, e sul combattere e vincere i propri fantasmi personali (Ghost Ship), molti solo evocati o accennati ma segreti, altri più noti (la madre di Lilly si è suicidata quando lei aveva solo un anno, e già nel buon album Walking Proof del 2000 aveva raccontato delle sue dipendenze). Per questo il tono, sebbene raccontato tramite un sound di country molto elettrico (nella title-track vengono in mente le chitarre in libertà spesso usate da papà John), è abbastanza rilassata e risolta, e già Hidden Day in apertura avverte sul fatto che in questo caso andrà in onda un racconto diverso da quello a cui ci aveva abituati.

Ci sarebbe quasi da pensare un giorno ad uno speciale sui dischi che raccontano l’approdo in un porto sicuro e tranquillo da parte degli artisti dalla vita più disordinata (penso ad esempio al Lou Reed di My House in The Blue Mask), quasi un sottogenere narrativo che spesso viene avvertito come poco intrigante dal pubblico.  “Chi guarderebbe un film come questo dopo uno spettacolo rock n roll?” canta non a caso Lilly in Kwik-E-Mart quasi interrogandosi sul “who cares’” del suo uomo e della sua vita coniugale. Domanda lecita a cui rispondiamo “a noi”, che amiamo comunque le belle canzoni finemente scritte e ben suonate, anche da una artista che forse non ha poi fatto il grande salto di crescita di personalità che possa portarla in prima fila nel vasto mondo della canzone americana, ma che da qualche anno ha trovato perlomeno un suo filone narrativo e espressivo che merita attenzione.

Nicola Gervasini

mercoledì 5 marzo 2025

SAY ZUZU

 

Say Zuzu

Bull

(Strolling Bones Records, 1998/2024)

File Under: Try One More Tme

Se ragionassimo con una logica commerciale, per non dire capitalistica, per cui una offerta sul mercato la si ripropone solo se ha avuto un ritorno economico soddisfacente e replicabile, dovremmo pensare che la ristampa dell’album Every Mile dei Say Zuzu, che vi presentammo poco più di un anno fa, abbia avuto vendite più che incoraggianti. Non disponendo di questi dati, possiamo però anche pensare che il fatto che la Strolling Bones Records di Athens abbia deciso di proseguire con l’operazione, proponendo il precedente disco del 1998 Bull, sia anche frutto di una passione, prima ancora che di mero calcolo economico. D’altronde per capire il loro spirito, basta guadare il sito della label per scoprire che ha in catalogo nomi alquanto oscuri della scena roots, in cui gente a noi ben nota, ma certo non “di primo grido”, come Jon Dee Graham, i Chickasaw Mudd Puppies o Randall Bramlett, giocano il ruolo di nomi di punta.

 

Soprattutto perché poi la cosiddetta “deluxe edition” è una semplice ristampa, arricchita in questo caso con tre inediti, segno che poi gli stessi Say Zuzu ai tempi non si preoccuparono poi molto di lasciare materiale nel cassetto per future operazioni discografiche. Intanto ci dà, comunque, l’occasione di riascoltare (o a voi che non l’avete preso in considerazione 26 anni fa, di riscoprire) un disco che rappresentò per la band la raggiunta maturità. Non aveva forse i pezzi potenti dei precedenti Highway Signs & Driving Songs (1995) e Take These Turns (1997), che restano i primi due titoli che consiglierei della band, ma era sicuramente il disco meglio prodotto del loro catalogo, forte anche di una band che si era ormai ben rodata nei live, e aveva trovato anche in studio il modo per smussare certe spigolature e ingenuità dei primi album. Bull in un certo senso poteva essere la loro occasione di uscire dalla nicchia con pezzi forti come Fredericksburg e Pennsylvania, ma arrivò purtroppo quando l’onda commercialmente positiva dell’Americana stava entrando nella sua fase calante. E paradossalmente She Was The Best, uno dei tre inediti, avrebbe potuto avere qualche chance se si ricorda il successo ottenuto dai Sister Hazel con brani molto simili, e viene da pensare sia stata esclusa ai tempi forse proprio perché un po’ fuori dalle loro solite coordinate

 

La formula comunque rimaneva la stessa, potremmo definirla “Uncle Tupelo-Like” (e la presenza di Moonshiner parla chiaro in tal senso), sia nel suono tutto chitarre, sia nella divisione di compiti tra i due leader Cliff Murphy e Jon Nolan, ma è ovvio che oggi brani come Hank o Wasting Time possono conquistare solo chi seguiva la scena già ai tempi. In ogni caso anche gli altri due inediti valgono la pena, più che una ordinaria Didn’t Know, la bella Singing Bridges con il suo valido gioco di chitarre acustiche. Non tantissimo magari per chi deve decidere se rinnovare la propria edizione già acquistata nel 1998, un bel tesoro per chi parte da zero.

 

Nicola Gervasini

sabato 1 marzo 2025

HUMPTY DUMPTY

 

Humpty Dumpty – Et Cetera

Humpty Dumpty, 2024

 

Suscitando il consueto poco clamore, più per sua scelta artistica che per effettivi meriti, a fine 2024 è uscito Et Cetera, il nuovo album di Humpty Dumpty, la principale creatura artistica di Alessandro Calzavara (non è l’unica, nel 2022 vi avevamo presentato ad esempio il progetto a nome Dana Plato), figura storica della scena indipendente siciliana fin dagli esordi con i Maisie.

Libero di dare sfogo alle sua svariate passioni musicali grazie ad una fiera autoproduzione, Humpty Dumpty si prende anche la libertà di scegliere di volta in volta la lingua di riferimento, per cui per il nuovo album torna all’italiano, come già l’apprezzato La Vita Odia La Vita del 2019, compresa la conferma di Giulia Merlino ai testi, stavolta però in alternanza a quelli di una fantomatica Florita Campos (in realtà il piacentino Andrea Fornasari). Per questo album Calzavara fa tutto da solo, tranne farsi aiutare dal basso pulsante, e direi determinante, di Giovanni Mastrangelo (provate solo a concentrarvi sulla complessa bass-line di Cosa sono questi versi? tra le tante), per tessere un quadro di synth-pop italiano decisamente figlio della new wave nostrana dei primi anni 80 nel definire atmosfere dark, quasi berlinesi direi (città che viene di fatto citata anche in uno dei pezzi forti del disco, La Mort Peut Briller, forte anche di un recitato finale di Giuseppina Borghese, scrittrice siciliana). Tastiere e drum-machines si intersecano nei brani imponendo spesso ritmi quasi dance, a cui fanno da contraltare la vocalità oscura e declamatoria di Humpty Dumpty e i tanti interventi delle chitarre, particolarmente evidenti ad esempio in In fila Per Ore o nei riff di Inconsistenti.

Cos’altro Dire? apre il disco con un testo un po’ disilluso, una malinconia che pervade tutto il disco più come voluta “estetica del nero” che per un reale pessimismo di fondo (d’altronde, come si recita in un brano, “Anche la morte può luccicare”), e si conclude con la poetica La Tazza Preferita, in questo caso chiusa da un recitato di Giada Lottini che direi che illustra perfettamente lo spleen dell’album (“E il discepolo chiese: Maestro, non ci insegni il non attaccamento? Perché hai una tazza preferita? E il maestro rispose Sì, è la mia tazza preferita, ma io la vedo già rotta”). In mezzo, tra le altre, si fanno notare Vernissage, in cui tra le righe si legge una riflessione sulle modalità di apparire e promuoversi degli artisti moderni, o l’ipnotica Calle Bucarelli, in cui Florita Campos gioca con la propria misteriosa identità all’interno di un immaginario movimento letterario chiamato “surrealvisceralismo” in risposta al “realismo viscerale” dello scrittore Roberto Bolaño.

Disco molto omogeneo e riuscito direi, con Humpty Dumpty capace ormai di far valere una esperienza più che trentennale nelle produzioni casalinghe.

Nicola Gervasini

Voto: 7.5

Elli de Mon

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