Mekons Ancient & Modern 1911-2011 [Bloodshot 2011]
Mi fa una certa sensazione leggere che i Mekons esistono fin dal 1977, perché in qualche modo sono una di quelle band che ormai da tanti anni seguo nella segreta speranza di avere da loro il disco che possa finalmente consacrarli nella storia del rock, come ormai meritano. Errore mio, lo so, perché Jon Langford, che poi è la mente che da 34 anni anima la sigla, non è certo uomo che pensa l'arte in termini di opera storica, quanto di libera espressione delle proprie tante e spesso volutamente confuse idee, per cui prendere o lasciare, o lo si ama nella sua perpetrata e genialoide imperfezione, o lo si abbandona del tutto. L'epopea della band, tra mille cambi di rotta e sostituzioni di formazione, non si è mai veramente interrotta, nonostante si faccia fatica a enumerare i tradimenti del suo timoniere (sette album con i Waco Brothers, probabilmente la sigla con cui Langford ha espresso il meglio della sua arte, ma anche altre oscuri progetti come Pine Valley Cosmonauts o Wee Hairy Beasties, oltre a quelli solisti), e basta solo leggere una delle dichiarazioni che accompagna l'uscita di questo Ancient and Modern per capire la sua frustrazione per una sigla poco conosciuta ("a parte morire, per avere la giusta attenzione dovremmo forse separarci per dieci anni e poi fare una vera reunion, siamo ancora in tempo per farlo").
L'album è il logico seguito del precedente Natural del 2007, titolo che aveva anche rilanciato in qualche modo le loro quotazioni: si torna al mix di folk e rock che è il marchio di fabbrica della ditta perlomeno dalla fine degli anni ottanta, con largo uso di violini e fisarmoniche, e una certa nuova vena listener-friendly, con brani che accantonano leggermente le spigolature del loro folk sbilenco, in favore di ariose ballate che potremmo anche arditamente definire "orecchiabili" (Space In Your Face o la stessa Ancient & Modern). I fans accaniti comunque non si spaventino, quando vuole Jon dilania l'etere con la sua voce sgraziata e sofferente, regalando le solite screziate emozioni (Afar & Frolorne soprattutto la stonatissima piano-song I Fall Asleep), ma la presenza della voce di Sally Timms, alla quale spesso è affidato il microfono (nella quasi bluegrass Geeshie o nella dark-ballad Ugly Bethesda ad esempio), porta un insolito velo di gentilezza al tutto, così come la terza voce offerta da Tom Greenhalgh.
A conferma di un sensibile ammorbidimento arrivano anche i testi del disco, dove la solita feroce analisi della cultura occidentale (il sottotitolo 1911-2011 prova anche a inquadrare il secolo d'interesse) trova però una nuova dimensione proprio nel testo di Space in Your Face, che lo stesso Langford definisce come il loro modo di trovare un pacifico compromesso con i tempi moderni. Come dire che la rabbia dei loro esordi proto-roots-punk non è persa, ma forse ora è arrivato anche il momento di ragionare con più calma. E forse per la prima volta un loro disco può essere definito "maturo" senza troppa paura di offenderli. (Nicola Gervasini)
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