giovedì 10 ottobre 2013

TRAVIS

TRAVIS
WHERE YOU STAND
Red Telephone Box / Kobalt Label Services
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Quando chiami una band con il nome di battesimo del silenzioso e malinconico protagonista di Paris Texas di Wim Wenders, hai già segnato la strada da intraprendere. Il Travis che fu magistralmente interpretato da Harry Dean Stanton era il simbolo della fuga dalla nuova luccicante modernità degli anni ottanta, lontano dal clamore di un matrimonio fallito al suono per nulla moderno (per quei tempi) della slide-guitar di Ry Cooder, mentre i Travis che tra il 1997e il 1999 raccolsero l’eredità degli Suede, semplificarono gli arzigogoli mentali dei Radiohead e aprirono la strada a gruppi come Coldplay e Keane, sono stati uno degli ultimi veri link tra il brit-stardom degli anni novanta e il nuovo mondo musicale indipendente degli  anni 2000. Decennio quest’ultimo che li ha visti appartarsi sempre più, fino a scomparire dopo il 2008 e un disco come Ode to J. Smith che fece incetta di recensioni entusiaste ma evidenziò anche come il loro percorso avesse ormai perso il contatto con il grande pubblico. Fran Healey d’altronde non è mai stato uomo da grandi riflettori, e ha anche saggiamente aspettato cinque anni prima di ricomparire con questo Where You Stand. Che, nonostante l’autoproduzione (esce per un etichetta di loro proprietà), segue tutti i crismi della divulgazione massiccia, con la title-track messa in rete già a da maggio e un secondo singolo (Moving) on air prima dell’estate. Sforzo importante (non ultimo anche le tante edizioni deluxe previste per l’uscita) per un disco che segna un deciso ritorno alle origini del loro suono. Il solito malinconico brit-pop, particolarmente levigato nei suoni e nelle melodie, ma realizzato da una band che ha scritto pagine importanti del genere. La prima sequenza di canzoni (Mother-Moving-Reminder) potrebbe essere quella di un loro greatest hits, ed è solo da Warning Sign che cominciano le variazioni sul tema, ma anche i primi scricchiolii dell’ispirazione. La sensazione è che Where You Stand sia un disco pensato per recuperare il tempo perduto e i clamori dei loro esordi, magari chiedendo giustizia allo spropositato successo dei ben più furbi Coldplay. Risultato raggiunto in parte, perché se è vero che le stesse Mother o Reminder sono esempi di come la fine-art of brit pop non possa prescindere dai Travis, è anche vero che la band spesso scivola in un dèjà vu (anche altrui, si veda Another Guy che pare 1979 degli Smashing Pumkins o Another Room che recupera senza nasconderlo i Radiohead persi nel tempo) dando alle stampe il disco che forse sancisce la fine del loro percorso evolutivo e li promuove al rango di band storica intenta a riproporre sé stessa all’infinito. Esattamente quello che stanno facendo quasi tutte le altre band storiche in fondo.

Nicola Gervasini

martedì 8 ottobre 2013

POLLY SCATTERGOOD

POLLY SCATTERGOOD
ARROWS
(Mute)
***

L’Inghilterra negli ultimi anni pullula di personaggi come Polly Scattergood: ragazze nate con il santino di Bjork sul comodino e una lunga serie di muse rock e pop (da Debbie Harry a PJ Harvey) da cui attingere a seconda dell’ispirazione. Ventiseienne dell’Essex, Polly Scattergood ha esordito nel 2009 con il disco omonimo che aveva riscosso qualche buona critica (ma non l’unanimità che spesso ricevono gli esordi inglesi) e l’attenzione verso un personaggio eccentrico e sicuramente talentuoso. Arrows  potrebbe essere il disco della consacrazione nel mondo indie, e ha un alto potenziale commerciale, che, per quanto conti ancora qualcosa nel nuovo mercato discografico, potrebbe anche portarle qualche vendita interessante. Il sound è sempre un mix di elettronica con occhio puntato sia sulla new wave anni ottanta che sugli ambienti dance del Manchester Sound. L’inizio fa ben sperare se siete comunque disposti a entrare in un mondo fatto al 90% di tastiere e suoni campionati: Cocoon apre le danze con lo spirito di Tori Amos nel motore, la danzereccia Falling riesce in un colpo solo ad unire il techno-pop dei primi anni ottanta e i Cure, Machines cala il ritmo e pensa agli esperimenti elettronici di Kate Bush, Disco Damnaged Kid promette un ballo che non c’è con buon mestiere. Il disco, dopo una partenza briosa e intelligente, si adagia poi un po’ troppo nella riproposizione degli schemi appena elencati, finendo ad affogare in un mare di tastiere anche quando il brano potrebbe sembrare più che stimolante (Colours Colliding). I momenti di valore ci sono comunque, il singolo Wonderlust (di cui gira già da tempo un bizzarro video) ha la forza del tormentone radiofonico, la piano song Miss You è dotata di una giusta dose di teatralità brechtiana, ma altrove l’album stenta un po’ a trovare il colpo del KO. Non è comunque escluso che la sua uscita possa essere salutata da trombe e fanfare dalla stampa musicale inglese, visto come riescono spesso ad esaltare fenomeni che poi scompaiono nel giro di due anni, figuriamoci in questo caso dove comunque c’è della discreta carne al fuoco. L’attendiamo magari sul palco in Italia per verificarne la tenuta anche dal vivo.

Nicola Gervasini

domenica 6 ottobre 2013

CASE STUDIES

CASE STUDIES
THIS IS ANOTHER LIFE
Sacred Bones
***1/2

Non è facile dopo più di dieci anni di produzioni indie depresse e soporifere (al di là dei grandi valori artistici raggiunti da molti nomi) convincervi ancora ad affrontare un disco come This Is Another Life dei Case Studies. Ma se avete ancora pazienza e tempo di spegnere le luci e lasciarvi trascinare da una musica che fa del sussurro, se non proprio del silenzio, un arte, magari con la stessa devozione che avete dedicato a un disco dei National o dei Low (per dare subito un paio di coordinate chiare), allora anche lo slow-core rivisto e corretto da Jesse Lurtz e soci potrebbe conquistarvi. Lurtz è già noto come la parte maschile dei The Duchess And The Duke, autori di due album usciti a fine del decennio scorso fatti di folk sparato ad alta velocità, tanto da trovarli spesso catalogati addirittura come garage-rock. Ma la Seattle da cui provengono non è più la stessa dell’era Cobain, e persa la collaboratrice Kimberly Morrison, Lurtz ha generato un nuovo nickname (già titolari dell’esordio The World Is Just a Shape to Fill the Night di due anni fa)  per affrontare un’esperienza che si allontana da quanto fatto in precedenza. Folk magari, ma fortemente tinto di musica inglese o magari con in testa qualcosa vicino al mondo di Mark Eitzel. In A Suit Made Of Ash, il brano che apre il disco, fa capire subito l’indirizzo: pianoforte in evidenza, sezione archi e canto alquanto votato al melodico, e il resto del disco cambia solo raramente registro, fin dai tesissimi quasi sette minuti di Passage/Me In The Dark. Quando poi interviene Marissa Nadler nella ipnotica Villain il sapore è quello di una versione più acustica dei Walkabouts, mentre se avete amato le atmosfere malinconiche del John Grant di Queen of Denmark allora magari vi ritroverete a casa in brani come House of Silk, House Of Stone o You Say To Me, You Never Have to Ask (quest’ultimo potrebbe anche richiamare il Bill Fay recentemente riesumato dall’oblio della storia). Testi interessanti e sufficientemente folli per giustificare l’incedere impregnativo del disco, con durate anche oltre i sei minuti non facili da reggere al primo impatto. Il limite sta ovviamente nella voluta monotonia ritmica del tutto, come se l’artista non chiedesse, ma proprio pretendesse la nostra attenzione sempre più bombardata da stimoli on-line. Potrebbe avere ragione Lurtz, e sapere di riuscire ancora ad apprezzare un disco come This is Another Life potrebbe davvero rappresentare la nostra salvezza dalla modernità.

Nicola Gervasini

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