TRAVIS
WHERE
YOU STAND
Red Telephone Box / Kobalt Label Services
***
Quando chiami una band con il nome di battesimo del
silenzioso e malinconico protagonista di Paris
Texas di Wim Wenders, hai già segnato la strada da intraprendere. Il Travis
che fu magistralmente interpretato da Harry Dean Stanton era il simbolo della
fuga dalla nuova luccicante modernità degli anni ottanta, lontano dal clamore
di un matrimonio fallito al suono per nulla moderno (per quei tempi) della
slide-guitar di Ry Cooder, mentre i Travis
che tra il 1997e il 1999 raccolsero l’eredità degli Suede, semplificarono gli arzigogoli
mentali dei Radiohead e aprirono la strada a gruppi come Coldplay e Keane, sono
stati uno degli ultimi veri link tra il brit-stardom degli anni novanta e il
nuovo mondo musicale indipendente degli
anni 2000. Decennio quest’ultimo che li ha visti appartarsi sempre più,
fino a scomparire dopo il 2008 e un disco come Ode to J. Smith che fece
incetta di recensioni entusiaste ma evidenziò anche come il loro percorso
avesse ormai perso il contatto con il grande pubblico. Fran Healey d’altronde non è mai stato uomo da grandi riflettori, e
ha anche saggiamente aspettato cinque anni prima di ricomparire con questo Where
You Stand. Che, nonostante l’autoproduzione (esce per un etichetta di
loro proprietà), segue tutti i crismi della divulgazione massiccia, con la
title-track messa in rete già a da maggio e un secondo singolo (Moving) on air prima dell’estate. Sforzo
importante (non ultimo anche le tante edizioni deluxe previste per l’uscita)
per un disco che segna un deciso ritorno alle origini del loro suono. Il solito
malinconico brit-pop, particolarmente levigato nei suoni e nelle melodie, ma
realizzato da una band che ha scritto pagine importanti del genere. La prima
sequenza di canzoni (Mother-Moving-Reminder)
potrebbe essere quella di un loro greatest hits, ed è solo da Warning Sign che cominciano le
variazioni sul tema, ma anche i primi scricchiolii dell’ispirazione. La
sensazione è che Where You Stand sia
un disco pensato per recuperare il tempo perduto e i clamori dei loro esordi,
magari chiedendo giustizia allo spropositato successo dei ben più furbi
Coldplay. Risultato raggiunto in parte, perché se è vero che le stesse Mother o Reminder sono esempi di come la fine-art
of brit pop non possa prescindere dai Travis, è anche vero che la band
spesso scivola in un dèjà vu (anche altrui, si veda Another Guy che pare 1979
degli Smashing Pumkins o Another Room
che recupera senza nasconderlo i Radiohead persi nel tempo) dando alle stampe
il disco che forse sancisce la fine del loro percorso evolutivo e li promuove
al rango di band storica intenta a riproporre sé stessa all’infinito.
Esattamente quello che stanno facendo quasi tutte le altre band storiche in
fondo.
Nicola Gervasini
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