CASE
STUDIES
THIS
IS ANOTHER LIFE
Sacred Bones
***1/2
Non è facile dopo più di dieci anni di produzioni
indie depresse e soporifere (al di là dei grandi valori artistici raggiunti da
molti nomi) convincervi ancora ad affrontare un disco come This Is Another Life dei Case
Studies. Ma se avete ancora pazienza e tempo di spegnere le luci e
lasciarvi trascinare da una musica che fa del sussurro, se non proprio del
silenzio, un arte, magari con la stessa devozione che avete dedicato a un disco
dei National o dei Low (per dare subito un paio di coordinate chiare), allora
anche lo slow-core rivisto e corretto da Jesse
Lurtz e soci potrebbe conquistarvi. Lurtz è già noto come la parte maschile
dei The Duchess And The Duke, autori di due album usciti a fine del decennio
scorso fatti di folk sparato ad alta velocità, tanto da trovarli spesso catalogati
addirittura come garage-rock. Ma la Seattle da cui provengono non è più la
stessa dell’era Cobain, e persa la collaboratrice Kimberly Morrison, Lurtz ha generato un nuovo nickname (già
titolari dell’esordio The World Is
Just a Shape to Fill the Night di due anni fa) per affrontare
un’esperienza che si allontana da quanto fatto in precedenza. Folk magari, ma
fortemente tinto di musica inglese o magari con in testa qualcosa vicino al
mondo di Mark Eitzel. In A Suit Made Of
Ash, il brano che apre il disco, fa capire subito l’indirizzo: pianoforte
in evidenza, sezione archi e canto alquanto votato al melodico, e il resto del
disco cambia solo raramente registro, fin dai tesissimi quasi sette minuti di Passage/Me In The Dark. Quando poi
interviene Marissa Nadler nella
ipnotica Villain il sapore è quello
di una versione più acustica dei Walkabouts, mentre se avete amato le atmosfere
malinconiche del John Grant di Queen of Denmark allora magari vi ritroverete a
casa in brani come House of Silk, House
Of Stone o You Say To Me, You Never Have to Ask (quest’ultimo potrebbe
anche richiamare il Bill Fay recentemente riesumato dall’oblio della storia).
Testi interessanti e sufficientemente folli per giustificare l’incedere impregnativo
del disco, con durate anche oltre i sei minuti non facili da reggere al primo
impatto. Il limite sta ovviamente nella voluta monotonia ritmica del tutto,
come se l’artista non chiedesse, ma proprio pretendesse la nostra attenzione
sempre più bombardata da stimoli on-line. Potrebbe avere ragione Lurtz, e
sapere di riuscire ancora ad apprezzare un disco come This is Another Life potrebbe davvero rappresentare la nostra
salvezza dalla modernità.
Nicola Gervasini
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