domenica 6 ottobre 2013

CASE STUDIES

CASE STUDIES
THIS IS ANOTHER LIFE
Sacred Bones
***1/2

Non è facile dopo più di dieci anni di produzioni indie depresse e soporifere (al di là dei grandi valori artistici raggiunti da molti nomi) convincervi ancora ad affrontare un disco come This Is Another Life dei Case Studies. Ma se avete ancora pazienza e tempo di spegnere le luci e lasciarvi trascinare da una musica che fa del sussurro, se non proprio del silenzio, un arte, magari con la stessa devozione che avete dedicato a un disco dei National o dei Low (per dare subito un paio di coordinate chiare), allora anche lo slow-core rivisto e corretto da Jesse Lurtz e soci potrebbe conquistarvi. Lurtz è già noto come la parte maschile dei The Duchess And The Duke, autori di due album usciti a fine del decennio scorso fatti di folk sparato ad alta velocità, tanto da trovarli spesso catalogati addirittura come garage-rock. Ma la Seattle da cui provengono non è più la stessa dell’era Cobain, e persa la collaboratrice Kimberly Morrison, Lurtz ha generato un nuovo nickname (già titolari dell’esordio The World Is Just a Shape to Fill the Night di due anni fa)  per affrontare un’esperienza che si allontana da quanto fatto in precedenza. Folk magari, ma fortemente tinto di musica inglese o magari con in testa qualcosa vicino al mondo di Mark Eitzel. In A Suit Made Of Ash, il brano che apre il disco, fa capire subito l’indirizzo: pianoforte in evidenza, sezione archi e canto alquanto votato al melodico, e il resto del disco cambia solo raramente registro, fin dai tesissimi quasi sette minuti di Passage/Me In The Dark. Quando poi interviene Marissa Nadler nella ipnotica Villain il sapore è quello di una versione più acustica dei Walkabouts, mentre se avete amato le atmosfere malinconiche del John Grant di Queen of Denmark allora magari vi ritroverete a casa in brani come House of Silk, House Of Stone o You Say To Me, You Never Have to Ask (quest’ultimo potrebbe anche richiamare il Bill Fay recentemente riesumato dall’oblio della storia). Testi interessanti e sufficientemente folli per giustificare l’incedere impregnativo del disco, con durate anche oltre i sei minuti non facili da reggere al primo impatto. Il limite sta ovviamente nella voluta monotonia ritmica del tutto, come se l’artista non chiedesse, ma proprio pretendesse la nostra attenzione sempre più bombardata da stimoli on-line. Potrebbe avere ragione Lurtz, e sapere di riuscire ancora ad apprezzare un disco come This is Another Life potrebbe davvero rappresentare la nostra salvezza dalla modernità.

Nicola Gervasini

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