lunedì 10 marzo 2014

FLESHTONES


  
 The Fleshtones Wheel of Talent
[
Yep Roc/ Audioglobe 2014]
www.yeproc.com/artists/the-fleshtones

 File Under: fun fun fun

di Nicola Gervasini (27/01/2014)
The road goes on forever, and the party never end cantava anni fa Robert Earl Keen (o Joe Ely, o gli Highwaymen, a seconda di quale versione possedete). E adesso cosa c'entra Keen con i Fleshtones? Direte voi. Nulla, ma la frase mi è rimbombata in testa durante i 33 minuti di ascolto del nuovo album Wheel Of Talent. Perché forse non ve ne sarete accorti, ma una delle band più scoppiettanti degli anni ottanta, una delle poche che riusciva ad essere talmente underground da risultare completamente ignorata anche nei propri anni d'oro, non ha mai smesso di pubblicare dischi e calcare i palchi delle più scalcagnate bettole del globo (anche in Italia si ricorda qualche loro passaggio in anni recenti). Per loro infatti la festa non è mai finita. E non stiamo parlando di quella festa che è la vita nonostante tutto come la intendeva il Keen (contando che il protagonista della sua canzone alla fine moriva su una sedia elettrica), ma della festa vera, quella che si fa nelle cantine tra fiumi di birra, ragazzi stonati d'alcool e fanciulle urlanti (e non vado oltre con i particolari).

Perché Peter Zaremba e soci sono un po' come Hiroo Onoda, quel giapponese che ha passato 30 anni nella giungla a combattere perché nessuno aveva pensato ad avvertirlo che la guerra era finita. Loro è dal 1976 che fanno party-music sixty-style incuranti di quello che gli accade intorno. Probabile che ogni tanto abbiano messo anche fuori la testa, ma è certo che l'abbiano ritirata dicendo "passami un'altra birra va…". Non stiamo poi a sottilizzare sul fatto che cantare oggi un brano che s'intitola Remember The Ramones ha la stessa portata di modernità di una reunion dei Sex Pistols: puro revival, mera rivisitazione di un'emozione già vissuta. Si dice di non rifare mai una vacanza se è stata particolarmente memorabile, pena un'inevitabile delusione, ma i Fleshtones se ne fregano. Forse non saranno più quelli di trent'anni fa, ma - perdonate se sbraco nell'italiano - cazzo se pompano! 13 brani da due minuti e poco più (e a volte anche poco meno, come nella micidiale What You're Talking About), e un campionario di chitarre fuzz, coretti, fiati, violini, Farfisa sparati al cielo, urla sconsiderate e qualche lezione ancora da impartire (trovate la differenza tra Roofarama e un qualsiasi brano del Black Joe Lewis più recente).

Il disco è vario e anche ben scritto (How To Say Goodbye è pure una bella ballata roots), ci si diverte parecchio (Veo La Luz sa proprio di presa per il culo) e alla fine si è già pronti per un altro giro. "Ci siamo divertiti un sacco, e per un fan del rock and roll questo è un sogno che si avvera. D'altronde, chi altri può suonare questa musica se non noi?" ha dichiarato Zaremba presentando il disco. Già, chi altri? Gli Strypes potrebbero essere la risposta. Se solo avranno il coraggio e l'umiltà di prendersi Wheel Of Talent e prendere appunti in religioso silenzio.

venerdì 7 marzo 2014

LINCOLN DURHAM

LINCOLN DURHAM
EXODUS OF THE DEEMED UNRIGHTEOUS
Droog / Rayburn
***1/2
Proporre un nuovo nome in ambito blues e dintorni non è mai facile. L’elemento novità infatti è un pourparler, visto che il genere difficilmente offre nuove frontiere stilistiche, ma fa piacere sapere che il mondo blues continua comunque a generare nuove leve. Lincoln Durham è un giovane bluesman atipico. Primo perché viene dai dintorni di Austin, per cui nasce respirando roots-music fin da piccolo. Secondo perché il suo scopritore e pigmalione è stato  Ray Wylie Hubbard, che lo ha utilizzato spesso per spargere umori blues nel suo atipico country. Già titolare del buon esordio nel 2012 (The Shovel Vs. The Howling Bones), Lincoln Durham torna ancora più agguerrito con questo Exodus Of The Deemed Unrighteous, un disco breve (31 minuti) di blues rauco ed energico. “Registrato utilizzando solo gli strumenti più a buon mercato e le suppellettili più percussive che abbiamo potuto trovare” dice il libretto, e già avete capito lo spirito. Blues da strada, rumoroso e percussivo, vicino alle incursioni nel genere di Tom Waits o con le stesse sfumature gospel dei dischi di William Elliott Whitmore (basta sentire l’apertura di Ballad Of A prodigal Song). Durham non bada molto alle canzoni ma all’impatto della sua voce e dei suo arrangiamenti da busker navigato. Con momenti di puro spettacolo come il tour de force di Annie Departee (il passo verso gli White Stripes è davvero breve…),  l’hard –blues di Beautifully Sewn, Violently Torn (gli Aerosmith i blues li fanno così da decenni), il gran bel giro in slide di Stupid Man. Non esiste nulla qui dentro che non sia già stato pensato e suonato da altri, possa essere Howlin Wolf, Mississippi Fred McDowell o qualsiasi gruppo rock che abbia affrontato un blues acustico o semi-tale. Ma nonostante questo Exodus Of The Deemed Unrighteous riesce ad essere un disco fresco e veloce. Il momento di fermarsi ad ascoltare un canzone c’è, nella bella ballata Keep On Allie, ma in veste da folksinger Durham finisce ad assomigliare a troppi altri (qui ad esempio Shawn Mullins, ma in Sinner spare di sentire Ryan Bingham), mentre quando riparte a battere il piede sull’asfalto con Exodus Waltz torna a dare il meglio di sé prima del gran finale di Mama. Consigliato, anche se non vi cambierà la vita.

Nicola Gervasini

mercoledì 5 marzo 2014

SETH LAKEMAN

SETH LAKEMAN
WORD OF MOUTH
Cooking Vinyl/Honour Oak
***
Strano fenomeno quello di Seth Lakeman, violinista di estrazione folk che ha conosciuto un inaspettato successo in Gran Bretagna con il suo strano mix di folk e pop moderno. Album come Freedom Fields del 2006 (che ha portato i singoli Lady Of The Sea e The White Hare nella billboard britannica) e l’ancor più venduto Pour Man’s Heaven del 2008, Lakeman si è conquistato un posto nello star system dopo una lunga gavetta cominciata nel 1994 in compagnia dei fratelli Sean e Sam ( a loro volta titolari di proprie discografie). Word Of Mouth, settimo album della sua carriera (escludendo quelli con gli Equation) continua il percorso già intrapreso dal precedente Tales From The Barrel House: meno melodie facili, meno “pop” e meno strizzate d’occhio ad una classifica che non ha più bisogno di sognare, più voglia di farsi accettare anche dal gotha della folk music inglese. Che poi “inglese” mica troppo, se è vero che l’effetto di ballate come Another Long Night o Labour She Calls Home è lo stesso di alcune roots-song dei Bodeans che furono. Poi però Bells si butta di testa nel brit-folk classico, e Last Rider azzarda pure danze celtiche. I momenti migliori arrivano nei momenti in cui si lascia andare con il suo violino (The Courier, The Ranger, ma anche l’iniziale The Wanderer), oppure quando decide di concentrarsi sulla canzone lasciando perdere i numeri da funambolo, come nella bellissima ballata The Saddest Crowd o nella tesa Tiger. Registrato (con anche ottimi risultati dal punto di vista del calore dei suoni) in una chiesa nel Nord Devon, Word Of Mouth è il risultato di una precisa ricerca di storie della tradizione inglese, o anche semplici aneddoti raccontati dalla gente comune, raccolti da Seth tra un tour e l’altro. Quasi un concept album, un’opera sicuramente ambiziosa che forse ancora più mette in risalto la mancanza di quel genio in grado di renderla davvero imperdibile (considerando che il disco cala anche un po’ nel finale dopo la scoppiettante parte centrale), ma che rappresenta comunque un encomiabile (e in fondo riuscito) sforzo da parte di un artista che a trentasei anni sta cominciando a costruirsi una carriera per la maturità.


Nicola Gervasini

lunedì 3 marzo 2014

TIM EASTON


 Tim Easton Not Cool
[Campfire Propaganda 
2013]
www.timeaston.com

 File Under: Sun records nostalgia

di Nicola Gervasini (02/01/2014)
Sono anni (perlomeno dal 2003, quando consigliammo il suo terzo album Break Your Mother's Heart) che cerchiamo di convincervi di qual grande song-maker sia Tim Easton. Se ancora vi siete persi qualche puntata, provate magari a fare un giro nella recente raccolta (accidenti, ha addirittura un The Best in catalogo!) Before the Revolution - The Best of 1998-2011, oppure reperite subito i suoi dischi più interessanti come Ammunition del 2006 o Porcupine del 2009. Quello che è certo è che se non conoscete il personaggio, sarebbe meglio non partire dalla sua ultima fatica, questoNot Cool uscito un po' in sordina a fine 2013, periodo giusto per finire fuori da tutte le classifiche di fine anno della varie testate giornalistiche.

Non che forse ci sarebbe finito, anche se il magazine American Songwriter ad esempio ha fatto a tempo a non dimenticarsi di lui. Perché Not Cool rappresenta una sorta di disco di passaggio, un suo "period of transition" in cui il nostro, solitamente abilissimo a costruire trame melodiche al limite del pop su tessuti pienamente roots, immerge la sua arte nel blues e nel sound anni 50, fornendo un disco che ricorda molto svolte similari come i dischi di David Johansen con gli Harry Smiths o il Peter Case più recente di Wig. Non ho nulla contro il fatto di usare il blues, anche se spesso rappresenta la più facile e sicura scappatoia per celare una certa mancanza di ispirazione. Come dire che Not Cool è un buon disco fatto di voci rauche, chitarre gracchianti e ritmi fangosi, ma che è un album che potrebbe fare chiunque, dal Tom Waits più pigro fino a qualunque bluesman del globo. Mentre da Easton ci si attende magari qualche slancio da songwriter in più.

Già solo il fatto che non sia facile distinguere i brani testimonia l'eccessiva unitarietà del disco, che gioca la carta dell'immediatezza e della brevità (30 minuti e via…). Non basta qualche variazione rockabilly (Troubled Times), qualche sprazzo del brillante autore sentito un tempo (Lickety Split, uno di quei brani che Elvis Costello si è dimenticato di scrivere vent'anni fa), qualche numero divertente (Crazy Motherfucker from ShelbyOhio) e qualche dedica importante (lo strumentale Knock Out Roses scritto per Levon Helm) per giustificare l'intenzione di ricreare il sound degli Sun Studios era-Elvis voluta dai produttori Brad Jones e Robin Eaton, perché l'operazione nostalgia non è certo originale e serve solo a non evidenziare le vere potenzialità di Tim Easton. Godibile quanto presto dimenticabile, Not Cool non è un passo falso ma un passo in una direzione pericolosa, quella dell'"accontentarsi", che rappresenterebbe la tomba di una carriera fino ad oggi inoppugnabile. 

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