lunedì 28 aprile 2014

ANDREA SCHROEDER


  
 Andrea Schroeder Where the Wild Oceans End
[Glitterhouse 2014]

www.andreaschroeder.com

 File Under: In Berlin, by the wall…
di Nicola Gervasini (25/03/2014)
Se non ne avete mai sentito parlare, sappiate che la giunonica dark lady berlinese Andrea Schroeder si era già fatta notare con l'album Blackbird, il suo fascinoso disco d'esordio di due anni fa. Quando si parla di lei pare obbligatorio il paragone con Nico, con la quale condivide stazza fisica, nazionalità, e anche il modo profondo e vibrante di usare la voce, così come pare inevitabile citare la romantica durezza di Marlene Dietrich. Ma se in quel primo album si notava più lo stile delle canzoni, per il secondo capitolo - Where The Wild Oceans End - la Schroeder ha puntato sulla sostanza e ha ridefinito il suono. E chi meglio di Chris Eckman poteva portare in dote quel tocco americano misto al gusto mitteleuropeo necessario ad una simile svolta, lo stesso che ormai da anni costituisce il marchio di fabbrica della sua casa di produzione?

Sotto la guida della mente dei Walkabouts, le canzoni di Andrea Schroeder acquistano una forma definita, arrivando finalmente a toccare i livelli desiderati in episodi come Ghosts Of Berlin o l'iniziale Dead Man's Eyes. Certo, poi è naturale che l'episodio che risalta subito (e che, non a caso, è stato scelto anche come singolo) è l'azzeccatissima versione di Helden, la sorella tedesca di Heroes (che lo stesso David Bowie cantò in tedesco per omaggiare lo spirito berlinese che animava i suoi dischi della seconda metà degli anni settanta), ma non sfugga la crescita della Schroeder come autrice, in grado di vestire i panni che competono solitamente a Carla Torgerson in una acustica e decisamente rootsy Fireland (che davvero rammenta i migliori Walkabouts di due decenni fa). Il nebbioso tocco berlinese comunque non manca, e lo si sente nel rintocco di piano di The Spider (che ricorda tanto quello di Sense Of Doubt, sempre dal Bowie di Heroes), nel numero da cabaret alla Ute Lemper della title-track, nel blues infernale alla Nick Cave di The Rattlesnake, o in una Summer Came To Say Goodbye che sarebbe piaciuta molto a Jim Morrison.

Il tutto sempre con un'aria decadente e velvettiana che rappresenta insieme il pregio e il limite del disco, laddove l'eredità dei riferimenti continua a rimanere pesante. Ma il passaggio da un produttore decisamente preponderante come Eckman sembra essere un passaggio obbligato per imparare la nobile arte dell'espressione di una propria definita personalità (pensate a come anche i dischi di due autori molto diversi tra loro come Steve Wynn e Terry Lee Hale, da lui prodotti in anni recenti, suonino molto simili, o come la sua mano sia riconoscibile anche nelle vene della canzone d'autore italiana dell'Evasio Muraro di Scontro Tempo). In ogni caso Where The Wild Oceans End conferma una nuova interessante artista, tra l'altro ben supportata da una validissima band, che vede nella violinista Catherine Graindorge e nell'ottimo chitarrista danese Jesper Lehnkuhl (uno che ha studiato bene i corsi di Lou Reed e Tom Verlaine) gli elementi da tenere d'occhio.

giovedì 24 aprile 2014

AJ CROCE


 A.J. Croce Twelve Tales
[Compass/ IRD 
2014]
www.ajcrocemusic.com

 File Under: That's him in the same bar

di Nicola Gervasini (12/03/2014)


In un era ormai lontana, in cui l'invasione dei figli d'arte era ancora considerata una curiosa moda del momento e non la logica evoluzione della specie del rock and roll, A.J. Croce è stato uno di quei nomi su cui tutti abbiamo scommesso qualcosa. Dopo un esordio già promettente (prodotto da T-Bone Burnett), dischi come That's Me in the Bar (1995) e Fit to Serve (1998) lo avevano lanciato come una sorta di evoluzione moderna di Dr. John, grazie al suo stile a metà tra il tipico sound di New Orleans e il Tom Waits degli esordi. Poi però il ragazzo si è un po' perso nel tentativo di accedere agli anni 2000 con un investitura più pop e un sound meno sporco. Forse Transit del 2000 è stato anche ingiustamente ignorato dai più, ma è innegabile che il nostro eroe non si è più ripreso, cadendo in un inaspettato oblio.

Per questo Twelve Tales va salutato un po' come un comeback-record, non tanto perché lui se ne sia mai andato (da allora ha prodotto altri tre album), quanto perché comunque il suo tentativo di suonare e apparire più cool non ha avuto effetti positivi né in termini di critica che di nuovo pubblico. Guardarsi alle spalle può anche suonare come una sconfitta, eppure Twelve Tales non è solo un completo ritorno al sound dei suoi anni 90, ma anche un intelligente modo per trovare una sintesi tra le sue diverse nature. I brani sono molto differenti tra loro, risultato anche di diverse session in tre città differenti (Nashville, New Orleans, Los Angeles), con un cast stellare in cabina di produzione quanto variopinto. Allen Toussaint, il mitologico "Cowboy" Jack Clement (morto l'anno scorso, proprio poco dopo queste incisioni), il redivivo Mitchell Froom, il contrabassista Greg Cohen e esperti veterani come Kevin Killen e Tony Berg si sono riuniti per ridare nuova linfa vitale a dodici brani che lo rilanciano se non altro come autore da seguire.

Croce intanto torna ad esaltarsi al piano (Call Of Love e Easy Money stanno in piedi praticamente grazie allo scorrere fluido delle sue dita sulla tastiera), ma ritrova anche il suono dei suoi esordi grazie ai fiati di Shining o nella splendida ballata finale di The Time Is Up (quanto sarebbe piaciuto ad Eddie Hinton un brano così?). Spesso si concede qualche variazione sul tema (Momentary Lapse of Judgement si nutre dell'aria di Nashville, What Is Love lo vede addirittura calpestare le orme del padre Jim), ma l'album inizia alla grande con il delizioso singolo Right On Time e una ballatona roots come Always Evermore, e già alla seconda canzone ci si sente come quando si ritrova un amico dopo lungo tempo. Anche se poi, alla fine, Dr John continua ad essere più moderno di lui.

martedì 22 aprile 2014

JEFF FINLIN


 Jeff Finlin 
My Moby Dick
[
Bent Wheel/ IRD 
2014]
www.jefffinlin.com

 File Under: Melville rock

di Nicola Gervasini (25/02/2014)
Sembra incredibile, ma all'alba del 2014, dopo più di vent'anni di carriera, Jeff Finlin non ha una sua pagina di Wikipedia. Non che sia obbligatorio averla, ma se è vero che, volenti o nolenti, lo scibile umano sembra destinato ad essere riassunto in quelle pagine, pare incredibile che nessuno si sia mai preso la briga di scrivere due righe su questo cantautore americano di Cleveland. Fosse anche solo per ricordare i suoi cinque minuti (quindici parevano troppi) di celebrità come autore di una delle canzoni più toccanti della colonna sonora di "Elizabethtown" di Cameron Crowe (il brano era Sugar Blue). Non aiuta il fatto che la sua discografia degli anni 90 è oggi pressoché introvabile (ma il consigliatissimo esordio Highway Diaries si riesce ancora a reperire), tanto che neanche lui la può vendere dal suo sito.

Da qualche anno però Finlin ha preso in mano la sua arte e pubblica con regolarità dischi ben prodotti, ben scritti e sempre ben suonati, cantati con quella sua voce acida e roca a metà tra Dylan e Dan Zanes. Non fa eccezione My Moby Dick, disco autofinanziato grazie al crowdfunding e prodotto con John McMahan (tra gli artisti da lui serviti ricordiamo Kevin Gordon, Patrick Sweany e Markus Rill). Rispetto ai suoi buoni predecessori (da riscoprire l'accoppiataAngels In Disguise del 2007 e Ballad Of A Plain Man dell'anno successivo) si nota magari un tono meno rauco e qualche chitarra urbana in meno, con più enfasi su registri riflessivi, tanto che dopo una interlocutoria Walking In The Air, l'highlight del disco arriva con I Killed Myself Last Night, brano con un arrangiamento di tastiere che può ricordare anche il John Grant più etereo. Con la tesa Big Sun Going Down si torna comunque nel folk-rock da strada, grazie anche ad un bell'intervento dell' acida sei corde di McMahan, ma Language of Love riporta subito tutto ad atmosfere rarefatte alla Chris Eckman decisamente insolite per Finlin, così come la complessa It Did't Rain That Year.

Non sembra avere fretta stavolta Finlin, si culla sul giro acustico di Going Nowhere scoprendo un lato malinconico fino ad oggi rimasto sempre tra le righe. Anche quando potrebbe urlare, come nella ironica Woke Up Insde a Revolution, pare frenato, attento a non esagerare. Alla fine forse il tono dimesso sembra far mancare qualcosa al disco, quando anche l'heartland-rock di Red Dirt Land forse avrebbe necessitato può foga. Non cambiano registro Ohio e Come As You Are (niente a che vedere con Neil Young e Nirvana), la seconda notevole ballata condotta con il co-pilot Kevin Gordon alla voce. Chiude bene Gloriuos Day un album in cui la letteratura evocata anche dal titolo prende il sopravvento sul bisogno di ritmo. Una pausa di riflessione importante, anche se non completamente riuscita.

sabato 19 aprile 2014

DAVID CROSBY


 David Crosby 
Croz
[
Blue Castle /Warner 
2014]
www.davidcrosby.com

 File Under: the coolest déjà vu

di Nicola Gervasini (13/02/2014)
Per entrare nelle viscere di Croz si potrebbe partire dalla foto di copertina. Non perché sia particolarmente notevole dal punto di vista tecnico, ma solo perché lo sguardo di David Crosby non è rivolto al pubblico (come invece lo era quello di Oh Yes, I Can del 1989), ma continua a guardare oltre, in un altrove dove si trova quella terra promessa tanto sognata nei suoi anni giovanili. Ma ancor più significativo è il fatto che la foto sia stata scattata da suo figlio Django, il quarto della sua lunga e tribolata vita (se non si contano anche i due figli regalati con inseminazione artificiale a Melissa Etheridge). Uno scatto che coglie un padre che non si è fermato, ancora intento a pensare ad un mondo tutto suo, non ancora pronto per gli onori e riconoscimenti di fine carriera e per il meritato retirement a godersi i nipotini.

Crosby è uomo noto per la sua iper-sensibilità, uno che ha ancora l'innocenza di soffermarsi a cogliere l'aspetto tragico e umano di un gruppo di prostitute intente a convincere un branco di immondi ubriaconi a passare la notte con loro (If She Called). Non combatte più in prima linea, è ormai fuori dal grande giro, e troppe sconfitte lo hanno reso ancor più placido. Ma in fondo non si è arreso. Di fatto le maggiori case discografiche si sono rifiutate di pubblicare un suo nuovo disco di inediti, e allora Croz se l'è autofinanziato e autoprodotto (in studio la regia è stata comunque dello scafato Daniel Garcia). E anche le guest stars (un Mark Knopfler che dona un'aria da hit-single all'inziale What's Broken e un Wynton Marsalis che gigioneggia in Holding On To Nothing) pare che abbiano concesso i loro servigi da lontano e senza richieste di compenso. Per Crosby questo ed altro. Non fosse altro che, sebbene non aggiunga nulla a ciò che già sapevamo di lui e della sua splendida musica, Croz è un bel disco, figlio non tanto dei suoi lavori solisti (non c'è nulla qui dello spirito comunitario di If I Could Only Remember My Name, né della spavalderia da comeback di Oh yes, I Can, né tantomeno della sorniona furbizia pop di Thousand Roads), quanto della felice esperienza con i CPR (due album più che interessanti pubblicati tra il 1998 e il 2001).

James Raymond è sempre al suo fianco infatti, di fatto mette penna, tastiere e pure qualche pizzico di elettronica un po' ovunque, magari deludendo chi si aspetta ancora una nuova Almost Cut My Air, ma facendo felice invece chi ancora sta sognando sulle note di Guinnevere o Laughing. Undici brani lievi e smussati, in cui solo Set That Baggage Down tira fuori un po' la unghie (il brano è suonato e co-firmato dall'ex Lone Justice Shane Fontayne), mentre per il resto David si culla sul timbro da brividi della sua ugola, infilando alcune piccole gemme come The ClearingRadio oSlice Of Time. Non basta per riscrivere una nuova storia, ma Croz resta uno dei déjà vu più indispensabili degli ultimi fuochi del classic rock.

giovedì 17 aprile 2014

AUTUMN DEFENSE


 The Autumn Defense Fifth
[
Yep Roc/ Audioglobe 2014]
www.theautumndefense.com
 File Under: american pop
di Nicola Gervasini (05/02/2014)
Un giorno bisognerà commissionare a qualcuno un attento studio su quanto Pat Sansone pesi nell'economia creativa dei Wilco. Dietro figure pesanti e pensanti come Jeff Tweedy o il chitarrista Nels Cline, Sansone è da sempre il membro silenzioso, il "varie e eventuali" che suona all'occorrenza chitarre o tastiere, il personaggio che, ad un orecchio superficiale, potrebbe anche apparire come superfluo. Eppure Tweedy non ha mai rinunciato a lui, e quando Sansone ha dato sfogo al suo ego con gli Autumn Defense, non ha mai sbagliato un colpo. Nati nel 2001 come side-project estemporaneo del bassista John Stirratt, gli Autumn Defense hanno prodotto pochi dischi, tutti comunque belli e affascinanti come Circles, il bellissimo album omonimo del 2007 e il più controverso Once Around del 2010. Opere composte da un country-rock etereo e rallentato, parente stretto della matrice usata dai Wilco, ma spesso perso in un mondo artistico alternativo e meno sperimentale.

Fifth conferma quanto il progetto viva ormai di vita autonoma, e non è detto che un giorno Stirratt e Sansone non decidano di dedicarcisi a tempo pieno, come successo con la scissione definitiva tra Okkervil River e Shearwater. Rispetto ai precedenti capitoli il duo rinuncia solo leggermente a quel tono autunnale (sarà colpa del nome scelto…) e rarefatto che aveva appesantito Once Around, in favore di una maggiore apertura melodica. Dopo l'interlocutoriaNone Of This Will Matter, che sembra far presagire percorsi sonori già noti, This Thing That I've Found catapulta tutti in melodie country-beatlesiane che fanno pensare ai Jayhawks di Rainy Day Music. Di fatto più che a Jeff Tweedy, Stirratt e Sansone sembrano ispirarsi a Gary Louris, innamorandosi spesso delle proprie melodie e infarcendole di archi, arpeggi jingle-jangle e impasti vocali. Il tono malinconico resta comunque preponderante (Can See Your Face è la colonna sonora ideale per i vostri momenti di struggimento), la tendenza ad estetizzare il più possibile continua ad essere il marchio di fabbrica (I Want You Back, che sarebbe piaciuta ai Beach Boys), ma pare evidente l'intenzione di rendere Fifth l'episodio più "pop-oriented" del loro catalogo (con Why Don't We The Light In Your Eyes sfociamo nell'easy-listening puro).

Operazione riuscita, perché il valore del songwriting è davvero cresciuto a dismisura (Can't Love Anyone Else è il brano che i Jayhwaks non sono riusciti a scrivere in occasione della recente reunion), Under The Wheel è dotata di una grazia davvero rara e degna del migliore cantautorato west-coast oriented degli anni settanta. Permane forse quell'aria un po' da freddi professionisti tipica di due personaggi che nascono comunque come session-men da back office, una perfezione formale che a qualcuno potrebbe anche sembrare eccessiva, ma Fifth è un bellissimo trattato di musica americana semplice e di immediato impatto che, anche grazie a qualche nuovo coraggioso paladino (i Dawes ad esempio), non esce mai completamente fuori moda.

  

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