Leonard Cohen
You Want It Darker
(2016,
Columbia Records)
File Under:
it’s a good day to die
“Sono pronto, Mio Signore” recita
il chorus di You Want It Darker. E senza ovviamente augurarci che sia vero,
stavolta però un po’ c’è da credere alla propria auto-profezia di morte dell’ultraottantenne
Leonard Cohen. Ma magari, e lo
speriamo, è solo un altro dei suoi scherzi. Già una volta ci aveva gabbato,
quando nel 2004 aveva pubblicato in gran fretta Dear Heather, quasi un’opera lasciata incompiuta per mancanza di
futuro, con un clima generale da triste commiato che faceva pensare ad un canto
del cigno non troppo glorioso, visto che il disco è indubbiamente il suo peggiore
ad oggi. Invece Leonard è rimasto vivo e vegeto, e con You Want It Darker completa una ideale trilogia del rapporto con la
morte iniziata nel 2012 con Old Ideas e proseguita con Popular Problems del
2014. Che ci siano anche qui grandi testi e brani memorabili non è una sorpresa
(semmai nel 2004 lo fu trovarne troppo pochi), e neppure che l’appuntamento con
la morte sia descritto attraverso una religiosità tutta sua (Treaty). Non cambiano nemmeno le
melodie, ormai costruite intorno alla sua voce sempre più bassa e cavernosa, ma
la novità, purtroppo forse un po’ tardiva, è quella di avere finalmente un
produttore degno del suo nome. E pensare che ce l’aveva in casa uno in grado di
mettere in piedi una strumentazione e un suono che non sembrasse quello di un
piano-bar da matrimonio (più che con Patrick Leonard, che nei due lavori
precedenti già aveva migliorato di molto le cose, me la prendo con le scellerate
produzioni di Sharon Robinson). Posso capire che Cohen fosse un po’ restio a
contattare grandi produttori, visto che quando lo fece con Phil Spector, non
finì tanto bene (anche se sarebbe ora di dire che Death Of A Ladies’ Man aveva un suono forse troppo pieno rispetto
al quasi vuoto a cui i suoi fan erano abituati con i suoi primi quattro album,
ma di certo non era una schifezza), ma forse poteva anche pensarci prima. In
ogni caso il figlio Adam non fa niente di particolare: un coro lì (On The Level), un bell’incipit di chitarra
a seguire l’emozionante lettera di commiato di Leaving The Table, un organo a segnare If I Didn’t Have your love, un violino tzigano che duetta con un
mandolino e un wurlitzer in Traveling
Light. Adam non ha bisogno di strabiliare, solo attua sul padre una cura
che ci era già piaciuta in occasione del suo ultimo album We Go Home del 2014
(recuperatelo che ne vale la pena). Ma visto che la scrittura del padre è
davvero sempre più oscura e lenta, lui almeno gioca sulla varietà, inventandosi
un bellissimo coro muto a far da tappeto a
It Seemed the Better Way invece della solita anonima tastiera. Leonard da
parte sua ci mette sentimento (Steer Your
Way si regge sulla sua recitazione) e una penna che non ha mai perso colpi
(anzi, Bob Dylan in una intervista lo ha omaggiato come grande costruttore di
melodie, dichiarando tra l’altro di apprezzare molto anche la sua produzione
più tarda). E’ vero, lo volevamo ancora
più oscuro, e ci ha accontentato. Ma la prossima volta lo vogliamo ancora più
vivo.
Nicola Gervasini
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