Waco Brothers Resist! [Bloodshot 2020] bloodshotrecords.com File Under: The revolution starts now di Nicola Gervasini (11/03/2020) |
Se Lester Bangs fosse ancora vivo oggi, chissà se perderebbe ancora tempo a lanciare polemiche a distanza con l’altra grande firma del giornalismo musicale americano, Greil Marcus. Se Bangs aveva una visione decisamente progressista del rock, per cui (semplificando molto) potremmo dire che per lui era buono solo ciò che era innovativo o scardinava vecchi schemi, Marcus resta il cantore del rock classico e di una visione, secondo Bangs, anche abbastanza conservatrice. Pensavo a loro ascoltando il nuovo disco dei Waco Brothers, una sigla che molti magari non ricordano neanche più, ma che negli anni 90 nell’ambito di quello che ai tempi chiamavamo alternative-country, scardinò non pochi schemi e fece saltare salde certezze con due album che vi consigliamo caldamente di recuperare come To the Last Dead Cowboy e Cowboy in Flames.
Il loro leader, Jon Langford, ha decisamente riscosso più onori con la sua band primaria, i Mekons, eppure con questo suo side-project, in cui si diverte a vestire uno Stetson per usare la country music per fini decisamente personali, resta una epopea ugualmente importante. Pensavo ai due vecchi critici perché me li immaginavo a sentire assieme questo RESIST! (in maiuscolo, titolo che da solo dice tutto sul clima da sopravvissuti), troverebbero modo di discutere se ha senso che un “rivoluzionario” come Langford si ripeta, semplicemente ribadisca, o semplicemente tiri a campare facendo quello che sa fare meglio, ma ha già fatto in altri tempi. Insomma, avete capito cosa vi trovate qui: una band che ha ancora voglia di suonare, con ampio spazio dato alle schitarrate di Dean Schlabowske e a country-songs che sembrano suonate dai Clash o dai Social Distortion, e un artista che continua a portare avanti in parallelo le due sigle di cui è deus ex machina con estrema dignità, ma senza più la necessità di rompere alcuno schema.
Un disco da 7 per Marcus, da 5 per Bangs probabilmente. Perché oggi, non nascondiamolo, quando sentiamo un nuovo disco di vecchie glorie siamo innanzitutto contenti di sapere che sono “ancora in forma” e ancora sanno dare emozioni (Pete Townshend, che a 20 anni inorridiva all’idea di fare rock da vecchio, oggi si accontenterebbe anche solo di questo riconoscimento), ma la speranza di aspettarsi qualcosa che ci sconvolga la vita, secondo Bangs l’unica che giustificherebbe la pubblicazione di un disco, l’abbiamo un po’ lasciata al passato. Per questo non fatevi ingannare dalla copertina rivoluzionaria e battagliera, e dal claim pubblicitario pensato per loro dalla Bloodshot che urla “Hard Times Call for Hard Country!”, qui la resistenza in brani come Revolution Blues, la cover di I Fought The Law o Bad Times Are Coming 'Round Again, è solo nei testi fortemente politici e polemici, perché musicalmente la band gioca in difesa, rispolverando un cow-punk vecchio e conservatore, che però resta il pulpito migliore da cui declamare questi testi disillusi e feroci.
E anche quelli però, sembrano ormai scritti col piglio del vecchio che borbotta sconsolato il suo “ai miei tempi le cose erano diverse…”, ma che il rock possa essere anche materia per vecchi saggi è ormai stato ampiamente dimostrato, anche se Lester Bangs, morto nel 1982, non lo saprà mai.
Il loro leader, Jon Langford, ha decisamente riscosso più onori con la sua band primaria, i Mekons, eppure con questo suo side-project, in cui si diverte a vestire uno Stetson per usare la country music per fini decisamente personali, resta una epopea ugualmente importante. Pensavo ai due vecchi critici perché me li immaginavo a sentire assieme questo RESIST! (in maiuscolo, titolo che da solo dice tutto sul clima da sopravvissuti), troverebbero modo di discutere se ha senso che un “rivoluzionario” come Langford si ripeta, semplicemente ribadisca, o semplicemente tiri a campare facendo quello che sa fare meglio, ma ha già fatto in altri tempi. Insomma, avete capito cosa vi trovate qui: una band che ha ancora voglia di suonare, con ampio spazio dato alle schitarrate di Dean Schlabowske e a country-songs che sembrano suonate dai Clash o dai Social Distortion, e un artista che continua a portare avanti in parallelo le due sigle di cui è deus ex machina con estrema dignità, ma senza più la necessità di rompere alcuno schema.
Un disco da 7 per Marcus, da 5 per Bangs probabilmente. Perché oggi, non nascondiamolo, quando sentiamo un nuovo disco di vecchie glorie siamo innanzitutto contenti di sapere che sono “ancora in forma” e ancora sanno dare emozioni (Pete Townshend, che a 20 anni inorridiva all’idea di fare rock da vecchio, oggi si accontenterebbe anche solo di questo riconoscimento), ma la speranza di aspettarsi qualcosa che ci sconvolga la vita, secondo Bangs l’unica che giustificherebbe la pubblicazione di un disco, l’abbiamo un po’ lasciata al passato. Per questo non fatevi ingannare dalla copertina rivoluzionaria e battagliera, e dal claim pubblicitario pensato per loro dalla Bloodshot che urla “Hard Times Call for Hard Country!”, qui la resistenza in brani come Revolution Blues, la cover di I Fought The Law o Bad Times Are Coming 'Round Again, è solo nei testi fortemente politici e polemici, perché musicalmente la band gioca in difesa, rispolverando un cow-punk vecchio e conservatore, che però resta il pulpito migliore da cui declamare questi testi disillusi e feroci.
E anche quelli però, sembrano ormai scritti col piglio del vecchio che borbotta sconsolato il suo “ai miei tempi le cose erano diverse…”, ma che il rock possa essere anche materia per vecchi saggi è ormai stato ampiamente dimostrato, anche se Lester Bangs, morto nel 1982, non lo saprà mai.
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