giovedì 24 settembre 2020

COURTNEY MARIE ANDREWS

 BY  · AGO 2, 2020

Dalla scena folk contemporanea: Courtney Marie Andrews – Old Flowers.

Ci sarebbe da ragionare molto sul perché le tantissime artiste che hanno popolato questi anni duemila abbiano spesso scelto la via del folk per esprimere al meglio i propri sentimenti, seguendo la lezione di Joni Mitchell prima, e Suzanne Vega poi, con le dovute personali variazioni sul tema. Tra le nuove leve di questi ultimi anni, Courtney Marie Andrews è sicuramente l’artista più legata a schemi interpretativi classici, e questo Old Flowers, suo ottavo album se contiamo le pubblicazioni indipendenti giovanili, pare ribadirlo fin dal titolo.

Recensione: Courtney Marie Andrews – Old Flowers

Loose/Fat Possum Records – 2020

Un ritorno all’essenzialità che pareva doverosa dopo che qualcuno aveva storto un po’ il naso per il tentativo di riempire la propria musica del precedente May Your Kindness Remain, in verità anche quello ottimo disco, nonostante una produzione più attenta a riempire gli spazi e a cercare soluzioni più lontane dal folk.

Old Flowers non è un ritorno al passato per Courtney Marie Andrews

Non è però una resa questo Old Flowers, semmai un voler ribadire la propria natura, e un sentirsi più a proprio agio con una semplice soluzione voce-chitarra o piano. Non che un brano come Burlap String suoni scarno, con il suo giro “neilyounghesco” e la sua cullante steel-guitar, ma è evidente fin dalla sequenza iniziale (Guilty, con un piano che sta anche qui dalle parti di After Gold Rush, e una intensa If I Told, con un discreto tappeto di spazzole e suoni a commentare un lungo racconto), che stavolta il focus è tutto sulla voce di Courtney e sulle sue parole.

Per cui non aspettatevi nessuna accelerazione, anzi, le piano-ballad Together Or Alone e Carnival Dream calcano la mano sul lato malinconico dell’album, andando a invadere il campo di certe country-singers come Iris DeMent o Tift Merritt per la prima, più in zona Natalie Merchant la seconda. La title-track arriva ad allentare la tensione con un mid-tempo alla Aimee Mann, ma ancora la devastante Break The Spell ti obbliga al silenzio totale per poterne gustare ogni minimo suono e sussurro (davvero buono comunque il lavoro del produttore Andrew Sarlo, già sentito al lavoro con i Big Thief, il cui batterista James Krivchenia è protagonista anche in queste sessions).

Un disco a suo modo incalzante

Il ritmo si alza solo con It Must Be Someone Else’s Fault, prima che la bellissima How You Get Hurt riporti tutto nell’atmosfera intima e sofferta dell’album. In chiusura Ships In The Night segue melodie da traditional folk per una metafora sulla propria vita, a dimostrazione di un’artista non serena, ma serenamente convinta della forza delle proprie canzoni, presentate qui nella maniera più semplice possibile, ma assolutamente non frettolosa e sciatta. Una conferma che fa il paio con Song For Our Daughter di Laura Marling come il miglior esempio di letteratura musicale femminile contemporanea.

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