mercoledì 30 settembre 2020

MARY CHAPIN CARPENTER

 


  
 

Mary Chapin Carpenter
The Dirt and the Stars

[Lambent Light/ Goodfellas 2020]

 Sulla rete : marychapincarpenter.com

 File Under: it's ok to be sad


di Nicola Gervasini (07/09/2020)

Abbiamo sempre seguito con interesse la carriera di Mary Chapin Carpenter, ormai una vera veterana della canzone country d’autore americana, arrivata all’esordio nel 1987 con l’album Hometown Girl (dove tra l’altro rifece Dowtown Train di Tom Waits molto prima che Rod Stewart e Bob Seger se la litigassero) in quel periodo d’oro della New Nashville che ci portò anche nomi come Lyle Lovett, Dwight Yoakam e Steve Earle. Ai tempi il suo nome veniva spesso accostato a quello di Lucinda Williams come le più promettenti autrici della nuova scena, e non è un caso che la Carpenter vincerà un Grammy proprio grazie alla cover di Passionate Kisses di Lucinda.

Eppure, le analogie finivano lì, perché le due possono tranquillamente essere prese ad esempio di due modi completamente opposti di intendere l’arte del songwriting al femminile. Laddove Lucinda ama i toni rauchi, i testi diretti e sofferenti, e lascia spesso la polvere della strada depositarsi sui suoni dei suoi album, la Carpenter ama l’eleganza, gli angoli smussati, i suoni soffici, e testi personali sì, ma sempre concilianti anche quando traspare il dolore. Per questo forse la sua storia musicale è molto meno conosciuta da noi, dove il fenotipo della cantante country melodica non ha mai troppo attecchito (penso a quanto è stata poco celebrata nella nostra patria una come Emmylou Harris, anche dalla critica specializzata), eppure la sua discografia è ormai importante (partite dall’accoppiata Come on Come On del 1992 e Stones on The Road del 1994, nel caso). E, soprattutto, ultimamente il sopraggiungere di una certa età (ha passato i sessanta ormai) le sta donando una maggiore sicurezza nei propri mezzi, già presente nei precedenti The Things That We Are Made Of del 2016 e Sometimes Just the Sky del 2018, ma decisamente evidente in questo The Dirt and the Stars, che si candida fin da subito a suo miglior disco degli anni 2000.

E che dimostra quanto ancora conti molto il lato produttivo in un’era di home-made records, visto che se il disco suona davvero bene, sicuramente lo si deve alla produzione di primissimo livello di Ethan Johns, e al fatto che l’album sia stato registrato in Inghilterra negli attrezzatissimi studi della Real World di Peter Gabriel. Segno di un budget alto, che sta a significare che ancora il suo nome qualche cosa conta nelle alte sfere del mondo nashvilliano, uno dei pochi dove l’industria discografica ancora raggiunge ingenti fatturati. Vi consiglio di seguire i brani con i testi perché il viaggio emotivo è di primo livello, poi chi la conosce sa bene che il suo stile predilige le lente ballate intime e adotta raramente grammatiche country classiche, ma qui l’aggiunta è che si concede qualche brano più ruvido in zona Lucinda Williams (American Stooge), e qualche soluzione melodica più indie-like che piacerebbe a Ryan Adams, come All Broken Hearts Break Differently e Asking for a Friend.

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