mercoledì 3 febbraio 2021

LAURA VEIRS

 

La strana storia di Laura Veirs che approda alla sua opera migliore: My Echo.

La storia di Laura Veirs è curiosa. Laureatasi a 24 anni senza aver mai minimamente pensato di poter dedicarsi alla musica, se non per la partecipazione a qualche punk-band femminile “L7-like” del college, per 3 anni ha vissuto poi in Cina come traduttrice al seguito di una spedizione geologica. Ed è proprio nella solitudine di quell’esperienza che si è avvicinata al folk e ha cominciato a comporre. Di fatto se si esclude un disco acustico autoprodotto con il frutto di quei primi approcci, pubblicato poi al ritorno nel 1999, è solo nel 2003, a 30 anni suonati, che la Veirs ha cominciato a fare le cose sul serio.

Recensione Laura Veirs – My Echo

Bella Union – 2020

Oggi posta foto con i cuscini con i gattini su instagram, dove sciorina consigli sull’essere madri divorziate e conciliare l’attenzione ai figli con la voglia di proseguire la propria carriera musicale, e si paga le spese organizzando workshops di scrittura online. Una “normalità” a cui siamo ormai abituati in tempi di social, e l’idea che gli artisti (credo che il termine rockstar possiamo ormai pensionarlo) siano viziati e privilegiati perdigiorno fuori dal mondo dei “normali” sia ormai storia passata.

Un folk-pop d’autrice

E ora la nostra se ne esce con un disco come My Echo, probabilmente la prova più matura della sua vita artistica. In queste canzoni, infatti, Laura ha gettato tutte le crepe, le incrinature, le insicurezze di una persona di 47 anni che affronta la vita con la solo apparente sicurezza di chi deve di solito nascondere sotto il tappeto gli affanni per non crollare. E meno male che per lei esiste la musica, che ha ormai perso quasi completamente la matrice folk degli esordi, e si muove con più convinzione verso quella forma di sofisticato folk-pop al femminile moderno, di cui è ormai paladina insieme a Laura Marling o Angel Olsen.

Le collaborazioni e le canzoni di Laura Veirs in My Echo

Dunque gli arrangiamenti sono spesso pieni, con elettronica e suoni acustici che si rincorrono in un sodalizio direi più che riuscito, anche grazie all’aiuto di vecchi amici come Bill Frisell. E proprio nella produzione sta anche la chiave emotiva del disco: l’ormai ex marito è infatti Tucker Martine, suo storico produttore, che aveva cominciato a lavorare anche su questo disco prima di abbandonare, appunto, per questioni sentimentali e non professionali. Per questo brani come il piano-voce di End Times rivelano la loro natura di canzoni nate da un dolore vissuto in diretta, quasi che il divorzio sia stato colorato con una colonna sonora nata seduta stante. E basta anche sentire lo spirito diverso che aleggia nei quattro brani che Martine aveva fatto in tempo a produrre, Freedom Feeling, Another Space and Time, Turquoise Walls e Memaloose Island, non a caso forse messi di fila all’inizio del disco quasi a creare una sezione a parte, rispetto al resto dell’album, prodotto dalla stessa Veirs con l’aiuto tecnico di Adrian Olsen. Per questo My Echo è una fotografia fedele di un momento di vita ormai molto comune e in cui è facile ritrovarsi, quello di un doloroso divorzio.  I Sing to the Tall Man, la cavalcata pop di Burn Too Bright o Brick Layer lo raccontano con una lucidità e un ottimismo di fondo anche invidiabile, vista la situazione in cui sono nate.

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