Madchester è lontana, ma ritroviamo in grande forma uno dei protagonisti: Tim Burgess – I Love the New Sky.
A vederlo sulla copertina di questo I Love the New Sky, Tim Burgess ha tutto fuorché la faccia di un cinquantatreenne con ormai una lunga carriera alle spalle, ma ha più lo sguardo sicuro e strafottente del ragazzino al disco di esordio.
Invece lui è ormai un veterano della musica britannica, protagonista con i suoi Charlatans di quella stagione di grande fermento musicale che ruotò intorno alla scena di Manchester nei primi anni 90 (o, come si diceva ai tempi, “Madchester”), un’epoca dove non era affatto un sacrilegio unire la lezione strambo-folk di Syd Barrett con i ritmi della House che impazzavano nei club del Regno Unito. Nei 2000 ha affiancato alla mai interrotta storia della band (il loro tredicesimo album, Different Days, è datato 2017) una pigra e timida carriera solista, perlopiù improntata a provare generi e soluzioni diverse da quelle rese possibili dal processo creativo dei Charlatans. Disco solista perfezionato durante il lockdown
I Love the New Sky è il quinto album a suo nome, ed esce dopo un periodo di quarantena che lo ha visto protagonista su Twitter come animatore di “Listening Party” che hanno coinvolto colleghi e pubblico in attesa della fine del lockdown. Un periodo in cui Burgess ha anche affinato la produzione per nulla banale di questi brani, nati su una chitarra acustica con l’intento di un disco da songwriter classico, ma poi finiti per diventare una variopinta e quasi sovraprodotta (senza dare un senso spregiativo al termine) esplosione di colori pop.
Alla fine ha vinto il suo background fatto del Paul McCartney meno prevedibile e delle sperimentazioni da studio di Brian Eno, come affiora nella costruzione non certo canonica di brani come The Mall, che tra soluzioni Prog e cori alla Beach Boys piacerebbe persino a uno come Steven Wilson, o la barocca Comme D’Habitude. Persino il pop alla Cure dell’iniziale Empathy ricorda con prepotenza la sua appartenenza musicale, così come l’indie-pop alla Blur di Sweetheart Mercury.
Tim Burgess eccelle in I Love the New Sky
Il disco è stato co-prodotto da Daniel O’Sullivan dei Grumbling Fur, che si sobbarca anche le parti di batteria e di pianoforte (alla chitarra invece resta il fido Mark Collins dei Charlatans), dimostrandosi fine e mai scontato cesellatore di soluzioni sicuramente retrò e citazioniste, ma che chissà come mai suonano davvero fresche anche in questo 2020.
Il disco prosegue con la più casalinga e volutamente sgangherata Sweet Old Sorry Me, brano che introduce alle distorsioni di Warhol Me, sorta di omaggio in salsa british ai Velvet Underground. La passione per il muro di suoni orchestrali ritorna in Lucky Creatures, bella pop-song in zona Verve, mentre l’intima Timothy e la leggera Only Took A Year portano a quel piccolo gioiello di arte dell’arrangiamento che è I Got This, che poteva anche chiudere l’album. La durata invece raggiunge i 53 minuti grazie ad una Undertow immersa negli archi e al dolciastro finale di Laurie. Piacevole sorpresa questo album, ottimamente suonato e prodotto, a dimostrazione che ancora esiste qualcuno che considera l’album in studio come punto di arrivo della vita d’artista, e non come scusa per un tour.
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