Julien Baker
Little Oblivions
(2021, Matador)
File Under: Relative Fiction
La prima volta che ho sentito Julien
Baker era il 2016, era una delle artiste che omaggiava Elliott Smith nel
disco tributo Say Yes!, e la sua versione di Ballad of Big Nothing
colpiva subito per espressività, pur nella sua semplicità di arrangiamenti.
L’anno prima era uscito il suo album di debutto, Sprained Ankle, disco
che grazie ad un forte passaparola era diventato uno dei titoli più importanti
dell’annata. Complimenti le erano arrivati da mondi di ascoltatori anche molto
diversi tra loro, e bene o male il secondo capitolo Turn Out The Lights confermava
il suo stile semplice ma intenso, senza troppi orpelli in sede di
arrangiamento. Ma Little Oblivions, fin dall’iniziale Hardline,
fa capire che è tempo di svolte. La Baker viene da una lunga pausa di
riflessione, in cui ha comunque trovato tempo per qualche collaborazione, ma in
cui si è anche dovuta riprendere dai guai della depressione, con conseguenti problemi
di dipendenza da farmaci. Un elemento importante per capire come mai dallo
scarno sound dei suoi primi album, si passa a questo vero e proprio muro di tastiere
e chitarre che lascerebbero intendere l’apertura a svariate collaborazioni in
studio, se non fosse che invece lei resta l’unica musicista presente, eccezion
fatta per qualche intervento (anche strumentale) in post-produzione dell’ingegnere
del suono Calvin Lauber. È probabile che la Baker abbia ritenuto queste dodici
canzoni fin troppo dolorosamente personali anche solo per condividerle con
altre sensibilità musicali, ma è innegabile che il risultato pare ancor più
strabiliante se pensato come il risultato del lavoro di una one-woman-band. E
forse anche involontariamente il disco ha la struttura di un concept album, che
da riflessioni sulle proprie difficoltà a venire a patti con il mondo che la circonda
e le proprie debolezze (Heatwave, Relative Fiction), si apre sempre più
a riflessioni sul modo in cui la gente si relaziona con chi come lei mostra
evidenti difficoltà (Favor, Song of E). Quasi che la Baker abbia voluto
farci provare il suo percorso che dal fondo toccato e ben raccontato nella parte
centrale dell’album (dalla pessimistica visione dell’amore come possibile
ancora di salvezza di Bloodshot ai non troppo velati accenni all’autolesionismo
della stessa canzone e di Ringside) abbia comunque voluto chiudere il
disco con qualche spiraglio di ottimismo. Unica osservazione che mi permetto di
fare è che da un punto di vista stilistico questa nuova veste da pop etereo che
abbandona con decisione gli elementi folk (il piano sostituisce la chitarra
acustica come elemento base) finisce un po’ per farla confondere con altre
artiste contemporanee che si muovono sullo stesso terreno (Angel Olsen, ma
anche l’ultima fatica di Laura Veirs è assimilabile per i suoni), ma sono forse
sottigliezze che per ora che spariscono davanti ad un disco che mostra come
ancora si possa usare la musica come terapia, con la triste constatazione che
non siamo ma veramente gli unici a vivere nel dolore (gli ultimi versi del
disco sono “Sono rimasta delusa nello scoprire quanto tutti mi assomiglino”).
Nicola Gervasini
Nessun commento:
Posta un commento