mercoledì 22 gennaio 2025

The Wild Feathers

 

The Wild Feathers
Sirens
[New West 2024]

 Sulla rete: thewildfeathers.com

 File Under: yacht country (rock)


di Nicola Gervasini (29/10/2024)

Wild Feathers vengono da Nashville, vanno verso i quindici anni di carriera, e Sirens è il loro quinto album. E credo che siano una di quelle band che riaprono una antica, ma sempre viva, spaccatura nelle preferenze delle redazioni delle riviste musicali, divise tra chi cerca anche a Nashville la polvere, la musica fuorilegge, la rottura degli schemi, e chi in quella città, così rigidamente severa sui propri canoni estetici, si inserisce nella tradizione senza caderne troppo nelle trappole della produzione in serie. Ad esempio, il collega Pie Cantoni nel 2018 su queste pagine stroncava senza mezzi termini il loro terzo album Greetings from the Neon Frontier, chiudendo la sua disanima con un “Sporcatevi, incattivitevi, incazzatevi, fate un po' di vita ai limiti e poi ne riparliamo.” che rendeva al meglio questa linea di confine estetico.

I Wild Feathers sono effettivamente uno strano caso di band che con tutta evidenza pescano un po’ ovunque, da Tom Petty ai Jayhawks, dagli Eagles a Keith Urban, persino un po’ in quella roots rock sporcata di new wave alla War on Drugs (sentite Sanctuary), e sicuramente l’originalità non è la freccia migliore del loro arco. Ma di strada un po’ ne hanno fatta, di polvere ne hanno presa, qualche incazzatura (si ascolti Pretending) deve essere arrivata, perché Sirens è quel passo in avanti che ci porta a riconsiderarli non più uno specchio per le allodole per quelle giovani generazioni che, istigate da Taylor Swift o dalla Beyoncè in versione cow-girl, provano ad affacciarsi su un mondo musicale che sa di vecchio per sua stessa auto-definizione, ma una band che va a cercare quello spazio occupato (spesso molto positivamente) da band come i Dawes, per esempio, in cui si cerca un equilibrio difficile tra autorialità e mainstream. E così andate subito al fulcro del disco, una Slow Down che è puro radio-sound da easy-rock americano (a me ricorda per certi versi Missing You di John Waite come tipo di brano), e subito dopo però un episodio come Comedown che sì, il buon vecchio Petty, maestro d‘arte del fare cose elaborate facendole sembrare comprensibili anche al pubblico più distratto e meno esigente, avrebbe apprezzato.

Per contro, sebbene più della metà delle canzoni funzionino benissimo se ancora avete il viaggio in macchina come prova d’ascolto, resta poco coraggio nella parte strumentale, la band pare sempre un po’ impagliata e impettita nel suonare anche i brani più coinvolgenti, e qui ad esempio un confronto con la carica emotiva dei i JJ Grey & Mofro del recente Olustee sarebbe impietoso. In ogni caso Sirens, prodotto peraltro da Shooter Jennings, è un buon disco, che non vi farà strappare le mutande, ma alzare il volume ogni tanto sicuramente. Potremmo quasi definirlo la pietra fondatrice di una nuova forma di "Yacht Rock" nashvilliano (nota curiosa: a Nashville c’è uno dei più grandi Yacht Club degli Stati Uniti), termine che in alcune redazioni musicali fa venire orticarie e svariate nausee, ma anche qualche bel ricordo di disimpegnato buon country-rock da frequenze FM.

lunedì 20 gennaio 2025

De Francesco e Paolo Rig8

 

De Francesco – Cupio Invenire

Paolo Rig8 – Compost

Snowdonia - 2024

 

 

Sempre attiva nel coprire talenti, la Snowdonia ha presentato in questo finale del 2024 due artisti molto interessanti. Il primo è il bresciano De Francesco, già noto con il nickname MARIX, con cui ha inciso nel decennio scorso tre album improntati ad uno stile da cantautore indie. Ora usa il suo vero cognome (lui si chiama Mario) per un progetto molto interessante, composto da 10 canzoni ispirate da altrettanti romanzi più o meno celebri, un omaggio alle letture che lo hanno forgiato in tutti questi anni. Troviamo così titoli importanti come Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij ad ispirare l’amarissimo brano Rodja, Fight Club di Chuck Palahniuk dare vita ad una cinica canzone dallo stesso titolo (l’incipit poi direi che dice molto anche sullo spirito ironicamente pessimista dei suoi testi: “nell’ottica comune io dovrei sentirmi appagato perché il design svedese del mio appartamento è cool, nel mio armadio pax ho sei camicie tutte uguali”), o anche Dissipatio H.G. di Guido Morselli (altra fase indicativa anche nel brano omonimo: “ma non c’è più nessuno in questo giardino che dia un senso al tempo, su questa panchina mi resta l’attesa e in tasca le tue Gauloise”). Ma anche titoli meno celebri come Creatività di Philippe Petit (che ispira Sul Filo), o narrativa italiana più recente come Nella vasca del Führer di Serena Dandini o La signorina Crovato di Luciana Boccardi, e, forse anche un po’ provocatoriamente, anche un brano finale (Galline) ispirato da un “Uomo Qualunque di Facebook” promosso a letteratura moderna. Cupio Invenire (titolo traducibile come “Desidero scoprire”) è un bel disco cantautoriale, curato anche dal punto di vista degli arrangiamenti e del suono, con archi e fiati a contorno, come ad esempio il sax di Dario Acerboni in Acqua ai fiori (il cui riferimento letterario è Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin).

Ancora più dissacrante fin dalla copertina è Compost, settimo album di Paolo Rig8, disco che ha avuto un lungo iter produttivo per definire in dieci brani il punto della situazione di un neocinquantenne alle prese con un decadimento sia fisico, che motivazionale e morale. Il junk food della copertina (realizzata palesemente con l’intelligenza artificiale per aumentare il senso di grottesco della nostra modernità) rappresenta solo una delle tante tossine (descritte con precisione in Respiro e nella title-track) che l’esistenza ci propina per appesantirci nella seconda fase della nostra vita. Il tema è innanzitutto quello dell’artista indipendente che decide dii smettere di venire a compromessi, e se in Solo Se Mi Va decide di non partecipare alla questua di recensioni in cambio di una finta visibilità (“La medicina per l'autostima, in mezzo a tanti nomi, è comprarsi le recensioni che non legge nessuno, però i pareri son buoni, preferisco cantare per te che suonare per tre” canta), in Questa è l’Ultima ironizza sui concerti fatti in situazioni del tutto inadatte pur di poter avere una data da qualche parte (“Questa è l'ultima, lo sai, dopo mettono il D.J”). La reazione a tutto ciò può essere violenta (Spacca Tutto, che sembra un testo del Finardi della prima ora), o rassegnata, come quella dei pendolari raccontata in Binari. Il finale è ancora più amaro, con una Ancora in Tempo che descrive bene quella sensazione del cinquantenne odierno di essere troppo vecchio per poter ancora cambiare le cose, e troppo giovane per mollare davvero tutto (Too Old to Rock and Roll, Too Young to Die cantavano i Jethro Tull sullo stesso argomento), e una Ho Fatto un Dio che si porta avanti nel rispondersi se poi la religione possa aiutare o no in questi casi. Toni dark e atmosfere da new wave italiana anni ‘80 sono il bagaglio musicale di un disco completamente autoprodotto e suonato in veste di polistrumentista.

NICOLA GERVASINI

mercoledì 15 gennaio 2025

Bright Eyes

 

Bright Eyes
Five Dice, All Threes
[Dead Oceans/ Goodfellas 2024]

 Sulla rete: thisisbrighteyes.com

 File Under: di ritorni e riconferme


di Nicola Gervasini (01/10/2024)

Nella mia mente esiste un filo diretto e conduttore fra tre nomi come Conor Oberst (Bright Eyes), Colin Meloy (Decemberists) e Will Sheff (Okkervil River), artisti in verità con pochi contatti reali tra loro. Ma oltre alla piena contemporaneità della loro storia artistica, quello che ai miei occhi li accomuna è lo stesso medesimo approccio che hanno avuto verso il folk, o “indie-folk” si diceva ai tempi dei loro esordi di fine anni ‘90, visto che poi le loro rispettive band negli anni Zero hanno pubblicato i migliori dischi di un genere tutto loro in cui si univano alla perfezione tradizione e autorialità stramba e non categorizzabile.

Nel 2024 possiamo dire che Will Sheff dei tre è stato sicuramente il più continuo e coerente rispetto al suo credo musicale, Meloy invece, dopo aver sperimentato anche parecchio, si è poi trincerato coi suoi Decemberists in ua folk-rock più rassicurante e a colpo sicuro, con cui ha comunque pubblicato dischi più che notevoli (vedi il recente As It Ever Was, So It Will Be Again per esempio ). Conor Oberst, che forse dei tre era considerato l’enfant prodige, è quello che si è perso un po’, quello che non ha saputo tenere ben salde le briglie della propria straripante creatività. E paradossalmente quello che ha sacrificato di più la propria band, i Bright Eyes, a nome di una carriera solista, interessante quanto confusa, che di fatto non è mai decollata a dovere. E il fatto che molti suoi titoli solisti siano stati decisamente meglio dei due album usciti a nome Bright Eyes dal 2008 ad oggi (The People's Key nel 2011 e Down in the Weeds, Where the World Once Was 2020) fa capire come mai questo Five Dice, All Threes sia già stato ovunque salutato come una sorpresa, se non proprio addirittura un “ritorno”, nonostante siano passati solo quattro anni dal suo predecessore.

La ragione la potete capire anche solo al primo ascolto: Oberst qui si è concentrato a scrivere grandi canzoni, ben costruite e con testi ben studiati, e le ha prodotte ritornando a mettere il folk al centro, ma senza disdegnare tutto quanto ha sperimentato in questi anni, usato finalmente con criterio e senso della misura. Il risultato è che il disco è finalmente il mai arrivato seguito di Cassadaga, l’album con cui aveva abbracciato anche più che idealmente l’elaborato folk dei colleghi Meloy e Sheff, riuscendo peraltro benissimo nell’impresa.

La band, se così si può chiamare, è un trio di factotum che oltre a lui vede il grande guru della scena musical di Omaha Mike Mogis (ha lo studio di produzione più importante della città, e dalle sue produzioni sono partiti molti artisti della sua zona) e il fido pianista Nate Walcott. La lista degli ospiti e session-men è comunque lunga, ma ovviamente spiccano i contributi di Cat Power nella davvero splendida All Threes e Matt Berninger dei National in The Time I Have Left. Ma, a parte i credits colorati, il disco convince perché sa essere scanzonato (il toy-piano di Bas Jan Ader, una delle collaborazioni più convincenti con l’artista Alex Orange Drink, il fischio divertito di Bells and Whistles), riflessivo (Tiny Suicides pare quasi uno dei brani dei Pink Floyd più malinconici e acustici) o in vena di provare nuove soluzioni (il finale tex-mex dell’ottima El Capitan, questa si una canzone che Meloy gli ruberebbe volentieri).

Insomma, pur senza forse arrivare a giustificare la parola genio che qualcuno spese per Oberst agli inizi della sua carriera, Five Dice, All Threes ha tutta l’aria di essere quel punto fondamentale di recuperata affidabilità anche per il futuro.


lunedì 13 gennaio 2025

Amy Speace

 

Amy Speace
The American Dream
[Goldrush 2024]

 Sulla rete: amyspeace.com

 File Under: just a story from America


di Nicola Gervasini (04/11/2024)

Seguo Amy Speace con affetto e interesse dai tempi del suo terzo album The Killer in Me del 2009, e ho sempre pensato che proporla nelle nostre terre fosse una impresa alquanto titanica vista la poca familiarità che il pubblico italiano ha con il suo tipo di linguaggio. Anche nel suo campo, quello delle songwriters post-Lucinda Williams di questi anni 2000, è sempre stata un po’ ai margini, forse perché non ha il fascino del dark-country di una Mary Gauthier o la vena più melodica e immediata di una Kathleen Edwards, e anche la sua voce è bella, ma non ha particolarità che la rendano immediatamente riconoscibile. A sfavore di una popolarità rimasta infatti limitata agli Stati Uniti, gioca anche il fatto che la sua formazione di attrice shakespeariana la porta spesso a scrivere canzoni molto verbose e piene di riferimenti storici o letterari, il che rendeva album come How To Sleep In A Stormy Boat (2013) o Me And The Ghost Of Charlemagne (2019) affascinanti quanto anche un po’ troppo densi e monocorde.

La Speace è però un personaggio molto amato dall’ambiente statunitense, anche perché attiva dall’altra parte della barricata come articolista e critica musicale per testate a noi ben note come No Depression Magazine e American Songwriter Magazine, fino anche al New York Times. Per conoscerla, contrariamente alla regola di partire dall’inizio, vi potrei quindi consigliare di ascoltare The American Dream, suo ormai tredicesimo album dal 2002 ad oggi, perché se di una maturità ormai non ne aveva più bisogno, è forse il disco che meglio riesce a calibrare la sua penna avida di raccontare, e una produzione che resta sì sempre fatta in economia scegliendo la via del sound elettro-acustico guitar-oriented, ma puntuale e in grado di dare la giusta dinamicità all’album.

Finanziato con un ormai abituale crowdfunding e prodotto dall’esperto Neilson Hubbard, il disco raccoglie i collaboratori di lunga data come il chitarrista Doug Lancio e il mandolinista Joshua Britt, ed è una sorta di concept che racconta la storia americana attraverso i suoi ricordi di vita, con una title-track iniziale che racconta di lei a 7 anni nel 1975, spensierata ma già desiderosa di capire il mondo, mentre ascolta i commenti politici del padre. E così via con ricordi di compagni di scuola (Homecoming Queen, una sorta di Bobby Jean al femminile), matrimoni dolorosamente falliti (Where Did You Go), e prese di coscienza di quanto il voler stare fieramente fuori dal coro si paghi in solitudine (Glad I’m Gone).

E ancora i sogni da attrice e la vita a New York (In New York City) e la scoperta del folk (This February Day), fino al ritorno in provincia con Something Bout A Town per ritrovare sé stessa e concentrarsi sulla sua musica. Una storia tipicamente americana insomma, con la grande città che uccide il sogno americano dopo averlo promesso, e una provincia che lo mette definitivamente a dormire ripagando però in salute mentale. Non è la prima che ce la racconta questa novella, ma Amy Speace ha doti da storyteller davvero particolari e adatte al genere che vi invito a scoprire.

giovedì 9 gennaio 2025

The Rideouts

 

The Rideouts

The Journey

(The Rideouts, 2024)

File Under: Itafunk

La storia dei Rideouts nasce da un lungo soggiorno del loro leader Massimiliano (Max) Scherbi a Liverpool all’inizio degli anni 2000, luogo dove ha potuto formarsi come musicista e collaborare anche con grandi nomi della scena locale come Ian McNabb o Garry Christian (dei Christians). Tornato nella sua Trieste, Scherbi ha unito le forze con la vocalist Michela Grillo per un progetto ormai giunto al quinto album, da sempre improntato ad una struttura di base funky-soul in cui incastrare di volta in volta diverse influenze. Il nuovo album The Journey si impreziosisce poi della presenza della sezione fiati dei Kick Horns, i fiati di Steel Wheels dei Rolling Stones o About Face di David Gilmour per citare solo alcune delle loro mille collaborazioni (anche Blur, Primal Scream, ecc…), innesto che porta il nuovo disco su terreni decisamente da black music anni 70, come può tranquillamente dimostrare un brano come Supefunky Love. Il ritmo si fa indiavolato per buona parte del disco, sin dal singolo Perfect Man fino a Be My Lover, tutto chitarre funkeggianti e bassi pulsanti, ma non mancano i momenti più da soul-ballad come Through The Storm, la sognante Listen to Your Heart con la sua suadente slide, o la quasi psichedelica Sweet Angel’s Face, che sarebbe piaciuta a Curtis Mayfield. Spazio anche ad intermezzi acustici come Let Me Be, al bel fingerpicking di Burn In Your Fire e una Right Here At Your Side e il suo duello chitarra acustica-organo. In Let Yourself Go appare pesino un sitar, mentre Invincible è una piano-ballad che esalta la voce della Grillo.

https://www.youtube.com/watch?v=Ppnc2nng_68

martedì 7 gennaio 2025

Daniele Faraotti

 

Daniele Faraotti

EP! EP! URRA'!

(Danile Faraotti, 2024)

File Under: This is not an EP

Avevamo già incontrato la visionaria arte di Daniele Faraotti in occasione del suo album del 2019 English Aphasia, confermando come il bolognese fosse un artista che ama sfuggire alle definizioni, non presentandosi quasi mai con una proposta univoca. Se allora erano canzoni in inglese (o pseudo-tale, visto che Daniele ama inventarsi anche una propria forma personale di inglese) a cavallo tra blues e elettronica, qui invece ci troviamo nove tracce in italiano, a cui si aggiunge la title-track, cantata sempre in quel particolare “Faraottinglish”. Intanto il titolo è volutamente fuorviante, il disco infatti doveva esse effettivamente un EP, ma i lunghi ritardi nella sua pubblicazione hanno consentito di portare il minutaggio ad un album vero e proprio, mantenendo però ironicamente il titolo originale. Per il resto, nella sua versione italiana Faraotti ricorda molto certi esperimenti di post-new wave italiana dgli anni 90 (l’iniziale Eterni sa molto di Bluevertigo, la kafkiana La Forma di Coleotteri sta più in zona CSI). Ma il suono delle tastiere è invece decisamente anni 70, con la psichedelica Itinerario che ha un giro che sarebbe piaciuto a Brian Auger. La percussiva e sognante Ad Occhi Aperti è seguita da una più ironica Le Promesse, mentre più rock suona La Maschera degli Ardenti (ispirata dal racconto Hop Frog di Edgar Allan Poe). A metà tra follia pop britannica e indie italiano dei bassifondi, Faraotti con l’aiuto del produttore Ivano Giovedì (anche lui con eclettico curriculum che va dal blues all’elettronica) usa meno chitarra e più tastiere vintage, e si conferma artigiano di studio di grande interesse nella scena indipendente italiana.   

https://www.youtube.com/watch?v=Yjka2kxqS9c

lunedì 6 gennaio 2025

VonDatty

 

VonDatty

Storia Moderna

(Goodfellas, 2024)

File Under: Songs & Cartoons

Oggetto davvero interessante il quarto album del cantautore romano VonDatty (al secolo Roberto Datti), autore di dieci brani legati da un unico comun denominatore di derivazione cinematografica e fumettistica, quasi un concept che costruisce una “dark comedy” (la definisce lui stesso così), dove si intrecciano personaggi reali ad altri immaginari. Il disco è stato anticipato infatti da quattro video animati realizzati da Claudio Mangiafico (noto come Cla il Fumettaro) prendendo a prestito personaggi noti come la strega cattiva di Biancaneve cantata in Grimilde. Disco che si muove sulla linea di un rock alternativo italiano, con una title-track che apre le danze, dopo la intro recitata da Nicola Vicidomini, con un ritmo serrato e fiati in evidenza, passa per omaggi a Valentina di Crepax (Baba Yaga) o in generale a tutti i “cattivi” delle storie cinematografiche e fumettistiche (Canzone Allucinata). Spazio comunque anche a racconti più personali, come quello sull’arte di scrivere canzoni di Sulle mie Ossa o sul tema quasi hip hop di L'uomo Invisibile, che vede la partecipazione del cantante /attore Marti. Ma è l’intervento degli Underdog che porta il disco a chiudersi con una murder ballad come Carousel, dedicata al mitologico bar del l'Hotel Monteleone di New Orleans, dopo che Profiles (nella quale interviene Georgeanne Kalweit dei Delta V) aveva sondato il mondo dei profiler dei serial killer. Prodotto e arrangiato con l’aiuto di Pierfrancesco Aliotta e Giorgio Baldi, Storia Moderna è un buon salto di qualità per il cantautore romano.

https://www.youtube.com/watch?v=u6p4QPnc6xU

domenica 5 gennaio 2025

TV LUMIERE

 

Tv Lumière

Il Gioco Del Silenzio

(I Dischi del Minollo, 2024)

File Under: Dark Entries

Band storica nata in Umbria nel 1999, i TV Lumière approdano al quinto album con ormai un lungo bagaglio di esperienze e collaborazioni anche internazionali. Prima fra tutte quella rinnovata con il master e mixing di Amaury Cambuzat dei Faust, sicuramente a suo agio nei toni oscuri al limite del kraut-rock della band. Ma anche quella significativa con Swanz The Lonely Cat (dei Dead Cat in a Bag, suona il banjo in Ultima Cosa, un numero un po’ alla Woven Hand), assieme ad Andrea Van Cleef l’artista nostrano attualmente più vicino alla loro musica fatta di dark-folk e mix di musica americana e europea un po’ alla Hugo Race. La band oggi ruota sempre attorno ai fratelli Federico e Ferruccio Persichini e al batterista Yuri Rosi, mentre è ormai in pianta stabile in formazione anche la poliedrica bassista Marta Paccara. Il Gioco del Silenzio perde un po’ le loro origini noise-rock (che riaffiorano ad esempio in Nella spirale del Silenzio) per concentrarsi sempre più sulle atmosfere, come dire meno Einstürzende Neubauten, più Nick Cave and the Bad Seeds, e il risultato suona sempre molto personale, soprattutto perché la scelta di continuare a cantare in italiano evita di farli sembrare solo degli emuli. La funerea Clinica introduce al disco nella maniera più dark possibile, ma già Delirio si apre alla melodia e ad una coda elettronica comunque molto radiofonica. Le chitarre di Osservazione Esterna li avvicinano più a certo gothic-country alla Handsome Family, mentre Per Confortare Il Tuo Pianto è un suggestivo strumentale. I testi sono spesso intimistici, ma riflettono spesso anche sul mondo odierno e le sue dinamiche distorte di comunicazione. Consigliatissimo ai cultori del genere.

https://www.youtube.com/watch?v=iIw0NdkyJmw

giovedì 2 gennaio 2025

Lory Muratti & Andy “Bluvertigo”

 Un progetto multimediale per Lory Muratti & Andy “Bluvertigo”: L’ora Delle Distanze.

I progetti multimediali sono da sempre i più coraggiosi quanto i più difficili da collocare. L’unione di musica e letteratura ha tantissimi casi, anche di successo, ma è inevitabile che poi alla fine il progetto finisca per riferirsi anche a interlocutori molto diversi. I coraggiosi in questo caso sono il varesino Lory Muratti (per qualcuno ancora noto come Tibe, nickname usato fino al 2013), da sempre promotore di opere miste letteratura/musica, e Andrea Fumagalli, più noto a tutti come Andy fin dai tempi della sua militanza nei Bluevertigo di Morgan, e ormai personaggio spesso presente anche in trasmissioni televisive. I due hanno unito le forze sia per un libro, con testo scritto da Muratti e con i bellissimi disegni al limite della Pop-Art curati da Andy, sia per un 45 giri (acquistabile anche singolarmente) a commento, con un risultato che si tradurrà poi in uno spettacolo a loro detta “in equilibrio tra concerto, teatro, installazione e Dj set.” che sarà effettivamente curioso vedere.

Un libro da collezione

Il libro è innanzitutto un bell’oggetto da collezione grazie alle tavole curate da Andy, ma anche per il testo sofferto e onirico ideato da Muratti ispirandosi però all’amico Andy nel creare i due personaggi principali, uno che si muove di giorno (ll Pusher del Colore) in un mondo triste e in bianco e nero, uno invece notturno (Fluon), che scorazza in un mondo parallelo e fantastico (il mondo delle Distanze) per incamerare il colore necessario per colorare il giorno. Soprattutto il mondo notturno di Fluon è una sorta di trip psichedelico a metà tra Alice nel Paese delle Meraviglie o un incubo notturno alla Fuori Orario di Martin Scorsese, in cui il protagonista incontra figure fantastiche (il Violinista Appeso o il Killer del Phon), ma anche personalità note come David Bowie (poteva mancare?) o Alain Delon, con anche duelli a colpi di pennelli.


Lory Muratti & Andy “Bluvertigo” - L'ora Delle Distanze

Tutto narrato con piglio surreale non facilissimo da seguire se non siete già sintonizzati verso quella fantasia di taglio fumettistico della cultura giovanile degli anni ’90 (loro vengono da lì d’altronde), sospesi tra immaginari quasi cyber-punk e lo spleen adolescenziale tipico dei manga più in voga ai tempi. Un’opera che sicuramente piacerà a chi non ha mai smesso di sognare e perdersi in quel mondo nonostante gli anni siano passati.

L’ora Delle Distanze mescola le influenze di Lory Muratti & Andy “Bluvertigo”

Di altro tenore invece il 45 giri colorato edito dalla Riff Records. L’ora delle Distanze è una canzone con un testo forte e disilluso nel tracciare un quadro desolante delle esistenze dei più di oggi, tra salari che impediscono di sognare e sogni che impediscono una serena accettazione di una realtà sempre più insostenibile. Brano che mischia l’elettronica che fu dei Bluevertigo con un incedere quasi da stoner-rock anni ’90 che credo possa avere anche un certo appeal radiofonico. Il brano è accompagnato da un bel video che dal bianco e nero prende sempre più colore man mano che la rabbia del testo cresce di intensità. La Caduta è invece un brano sostenuto da un pulsante groove di basso e batteria, ma recitato con voce sognante dai due, con un sax di bowiana memoria a seguire la melodia che non tradisce la loro primaria ispirazione. Sarà interessante scoprire come tradurranno tanti spunti in uno show live.

Elli de Mon

  Elli de Mon Raise (2025, Rivertale Production) File Under: Saints & Sinners L’idea di canzoni che utilizzino un dialetto (se n...