Febbraio 2010
Buscadero
Non si è mai capito bene se Jonathan Meiburg considerasse i suoi Shearwater un mero side-project degli Okkervil River, o semplicemente sia riuscito nel miracolo di tenere in piedi due delle più emozionanti epopee musicali degli anni 2000 con salomonica divisione di tempo e sforzi. Fatto sta che l’anno scorso è arrivata la sua decisione: gli Okkervil River restano la creatura di Will Sheff, lui invece dedicherà anima e corpo solo a questo strano progetto. Nati nel 2001 con l’effettivo intento di dare spazio ad una serie di brani sognanti che poco avevano a che fare il nuovo folk nervoso degli Okkervil River, gli Shearwater si sono guadagnati via via uno spazio grazie ad una costante maturazione. The Golden Archipelago, sesto capitolo della saga, è forse anche il più atteso, perché nel 2008 Rook aveva convinto tutti e aveva per la prima volta superato la band dell’amico Will in termini di riconoscimenti. E anche questa volta gli Shearwater non deludono le attese di chi si era innamorato delle atmosfere “liquide” della loro musica, eternamente sospesa in un immaginario marino (anche il nome della band è quello di un uccello di mare) che trova qui la propria apoteosi nella copertina, nel titolo, e nei testi a tema sulla vita in un isola solitaria (obbligatorio, in una prossima intervista, chieder loro i fatidici dieci Desert Island Records, visto che sembrano davvero credere all’eventualità di averne davvero bisogno). Ed è palese anche il tentativo di ricreare lo stesso ritmo schizofrenico di Rook, fatto di momenti lenti e onirici (Meridian ad esempio), inframmezzati da improvvise esplosioni (la minacciosa Black Eyes), sempre con la voce declamatoria di Meiburg sugli scudi. Quello che però sembra mancare stavolta è quel paio di momenti di pura esaltazione che elevavano ad alti livelli il predecessore, perché qui i pezzi forti (il singolo Castaways, la tesa Corridors o la poetica God Made Me ad esempio) non sembrano avere una marcia in più, anzi, semmai il freno a mano tirato da qualche sbadiglio di troppo negli intervalli (Landscape At Speed, Hidden Lakes). Nel complesso comunque l’opera gode di una piacevole unitarietà e riesce nell’intento di catapultare l’ascoltatore in questa sorta di eterna “waterworld” indipendente, con il rammarico forse per il finale frettoloso e in tono minore (si segnala solo Uniforms). Van Morrison questo tipo di fase artistica la chiamava “a period of transition”, quella, per intenderci, che servì a preparare in sordina nuovi grandi dischi. Sarà così anche per gli Shearwater? Noi vogliamo crederci.
Nicola Gervasini
Nicola Gervasini
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