Ammassati su un ipotetico tavolo ritroviamo copertine di classici per nulla oscuri, divisi in tre significative sezioni: quello che ascoltava lui (Red Hot Chili Peppers, Nirvana, Radiohead, pure i Simply Red), quello che ascoltavano i suoi genitori (da Elvis ai Police passando per tutto quello che dovrebbe avere in casa qualsiasi buon papà-rocker) e quello che ascolta lui oggi (David Gray, Ray Lamontagne, Damien Rice, e qui cominciate a capire dove si andrà a parare). Dalla sua Bio (un delizioso libro con disegni che pare il Diario di una Schiappa) apprendiamo intanto che Chasing The Night è il suo secondo album, che scrive, suona, canta tutto lui tranne la batteria affidata a Mick Bedford e qualche aiutino del produttore Will Jackson, che aveva pronte ben 25 canzoni per tirare fuori queste 13, che vuole crearsi una solida base di fan tramite facebook, twitter (ecc…) che gli permetta di cantare e suonare per tutta la vita. Fin qui al posto di Rupert Stroud avremmo potuto mettere almeno un milione di giovani songwriter indipendenti che si accontentano di una nicchia di un migliaio di seguaci, lasciando che la storia appartenga ad altri, in sezione apposita naturalmente. Nessuno scandalo che ciò accada nel 2012, a noi il compito di segnalarvene uno tra i tanti di tanto in tanto, forse perché in Chasing The Night ci sono abbastanza idee e buone canzoni da giustificare un giro dalle sue parti tra un nuovo imprescindibile lavoro di Dylan e un disco storico dei Nirvana. Ad esempio la title track e No Love Lost, non a caso scelte per commentare i due video ufficiali confezionati per favorire la self-promotion. Il resto viaggia tra il medio e l'interessante, che per una produzione semi-casalinga già non è poco, con qualche lungaggine (Sunday Night Blues dovrebbe suonare mefistofelica ma finisce per essere solo faticosa) e momenti ispirati (Take Your Time). |
sabato 24 novembre 2012
RUPERT STROUD
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