domenica 29 dicembre 2013

MASSIMO PRIVIERO - ALI DI LIBERTA'

Pensare a Massimo Priviero vuol dire ricordare la sua San Valentino e il primo rocker nostrano che tradusse in italiano l’epica del No Surrender springsteeniano. Oppure si può rivederlo negli anni novanta a guidare la schiera dei tanti “perché Ligabue sì e io no?”, abbandonato da un industria discografica incapace di valorizzarne le potenzialità (anche commerciali). Oppure lo si può ritrovare oggi con il nuovo disco Ali di Libertà (Mpc Records), ormai intento a vestire il ruolo di vecchio guru della canzone rock italiana. Ne ha ben diritto in fondo, vuoi perché i suoi dischi sono ben prodotti e continuano ad attirare un pubblico fedele (e tutto sommato ampio, considerato quanto di nicchia è diventato questo rock da noi), vuoi perché la sua musica ha ancora “fame di cuore guerriero”, per dirla come nella programmatica In Verità. Priviero continua da irriducibile a combattere una battaglia che ha generato tanto sudore e poche vere rivoluzioni, e insiste a cantare testi come Alzati (“ora o mai più”) o Io sono là (“e la mia guerra non è mai finita”), chiamando a raccolta un esercito di disillusi e invecchiati rock-fans che non hanno ancora smesso di lavorare ad un sogno. Potrà rispondergli solo chi è nello spirito adatto, ma tra i tanti saggi e giullari impotenti di questa nostra Italia in decadenza, qualcuno che ci crede ancora serve sempre. Sia mai che poi alla fine si scopre che ha ragione lui.

Nicola Gervasini

venerdì 27 dicembre 2013

Miami & The Groovers

Miami & The Groovers
No Way Back
(Miami & the Groovers, 2013)
File Under:  Promise-rock

Il bello di scrivere una recensione di un disco dei Miami & The Groovers è che sai già che sarà inutile. Esiste infatti una cosa che si chiama quello spirito lì che impedisce di esaminare con razionalità e spirito critico un certo tipo di musica. O ancora meglio potremmo dire un certo tipo di “vivere” un certo tipo di musica. Quello spirito lì se l’è inventato Bruce Springsteen tanto tempo fa. Non dal nulla di certo, prima di lui si possono trovare miriadi di precursori (soprattutto in ambito soul-music), ma lui ha intrapreso un processo durato trent’anni almeno, in cui l’uomo che sognava terre promesse ha prima realizzato l’impossibilità di trovarne veramente, si è poi rinchiuso nella sfera privata per cercare una consolazione, per poi decidere di chiudere la propria carriera in torrenziali party-tour fatti di bagni di folla, cori festanti e partecipazione collettiva. Chi frequenta queste pagine, ma anche solo è attento alla scena american-rock nostrana, sa già chi sono Lorenzo Semprini e i suoi Groovers:  come ben dice Edward Abbiati dei Lowlands in una delle interviste che impreziosiscono il DVD di questa lussuosa confezione, sono la party-band per eccellenza, il perfetto link tra il New Jersey che per anni i fans springsteeniani hanno sognato e immaginato fin dai tempi dei primi pionieri di casa nostra (Rocking Chairs, Priviero,ecc…), la band che più che imparare la sua musica (che, a ben guardare, guarda più spesso al rock stradaiolo anni 80 alla Del Fuegos e Replacements che allo stesso Springsteen), ha incamerato alla perfezione lo spirito dei suoi concerti. Quello spirito lì appunto, quello che la band romagnola ha voluto cercare a tutti i costi in due serate del marzo 2013 chiamando a raccolta in quel di Cesenatico il proprio pubblico, conquistato in dieci anni di concerti in bettole, pub e qualche grande occasione come “quella volta che suonarono prima e con Southside Johnny”.  Il risultato è No Way Back, un Cd con Dvd annesso che è una neanche troppo celata occasione di auto-celebrazione. Poche note di copertina, che però spendono i concetti di “eroe” ,“battaglia”,”miracolo”, “passione”, “sorrisi” e “amore”, insomma, il bagaglio base di tutta la nuova epica springsteeniana. Inutile fare ulteriori commenti: se siete sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda e passate varie notti all’anno nel pit sperando di poter essere quello che Bruce invita sul palco ad ogni concerto, allora No Way Back è perfetto. E non solo perché cattura alla perfezione quello spirito lì, ma anche perché, come già avevamo notato parlando dell’album in studio più recente (Good Things), la formazione attuale dei Groovers (Beppe Ardito, Alessio Raffaelli, Marco Ferri e Luca Angelici) ha raggiunto un affiatamento e una pienezza di suono da veri professionisti, e questo lì salva dal pericolo che quello spirito lì si trasformi solo in un ridicolo e grottesco scimmiottamento di miti d’oltreoceano. I classici della band ci sono tutti (Tears Are Falling Down, Broken Souls, Rock And Roll Night), da vedere e sentire a seconda del supporto scelto (il DVD è comunque ottimamente prodotto), come anche le cover-omaggio (Redemption Song, Rockin’in a Free World, White Riot, una sorprendente The Great Song of Indifference di Geldof , una Waiting For Me dell’amico Joe D’Urso), o l’intervento di vari amici raccolti sulla strada (Daniele Tenca, Riccardo Maffoni, Renato Tammi). E ovviamente il calore e la partecipazione del pubblico, sudati, soddisfatti e sorridenti come Semprini desiderava vederli al termine delle due serate. E soprattutto per nulla vogliosi di farsi troppe domande sul senso che tutto ciò può avere nel 2013, in un epoca in cui questo rock ormai non lo ascoltano più nemmeno gli americani che ce l’hanno nel sangue. Quelle domande dovremmo porcele noi su queste pagine, ma le risposte le trovate nelle altre recensioni, dove altra musica e altre filosofie più al passo con i tempi scorrono tra le righe, ma spesso non la stessa passione e quel sano ottimismo rock che gli anni duemila hanno fatto a pezzi senza pietà.

Nicola Gervasini 

venerdì 20 dicembre 2013

ROD PICOTT


 Rod Picott Hang Your Hopes On A Croocked Nail
[
Welding Rod Records 
2013]
www.rodpicott.com

 File Under: lo-fi folk

di Nicola Gervasini (13/11/2013)
Rod Picott rappresenta da anni il perfetto esempio di singer-songwriter americano "tipo". Titolare di una ormai lunga discografia costellata di gran belle canzoni, i dischi di Picott si sono sempre caratterizzati per produzioni che spesso si accontentano del delicato tran-tran della roots music d'autore. Come Slaid Cleaves o Greg Trooper, Picott è uno che non delude mai in fondo: nelle sue raccolte ci si ritrova sempre a gustare il brano azzeccato, il testo che colpisce nel segno, la melodia che si imprime subito nella memoria. Ma anche qualche soluzione musicale magari fin troppo prevedibile e senza personalità, che rappresenta forse la vera ragione della limitata audience di cui gode (in Italia è scontato, ma anche in patria fa non poca fatica ad emergere). Hang Your Hopes On a Croocked Nail non fa eccezione, e se conferma il momento di grazia della sua penna, già evidenziato dal precedente Welding Burns, persevera in una certa piattezza di suoni e soluzioni che non giova troppo al complesso.

Il team stavolta vede RS Field alla produzione, uno che già nella storia (gli esordi di Steve Earle, ma ultimamente collaboratore del figlio Justin Townes e di Mando Saenz) ci ha abituato ad un certo suono levigato e spesso fin troppo gentile, mentre la band vede la chitarra di Dave Coleman troppo spesso lasciata in disparte a favore dell'ottima steel di Joe Pisapia. Picott non ha grandi numeri nella voce da offrire, per cui come al solito qui la differenza la fanno e canzoni, e ce ne sono abbastanza per consigliare anche questa raccolta, anche se va notato che il meglio arriva proprio dalle collaborazioni in fase di scrittura con le penne di Slaid Cleaves e Amanda Shires (la splendida Dreams, ma anche la love song You're Not Missing Anyhthing e la country-ballad Might Be Broken Now).

Altrove però Picott scivola in alcuni dejà vu abbastanza risaputi come l'abusatissimo incedere alla Neil Young di Where No One Knows My Name (peccato, perché il testo è interessante) o ballate acustiche alla John Prine come Mobile Home o Just A Memory che non trovano il colpo di genio in mezzo a tanto buon mestiere. E se poi anche i brani che prendono subito al primo ascolto, come All The Broken Parts, ti rendi conto che si basano su un motivetto già sentito altrove (in questo caso Waitin On A sunny Day di papà Springsteen), allora la sensazione di disco minore aumenta non poco. Resta un album che consigliamo tranquillamente a chi ama il personaggio, che rimane persona che sa come farsi amare per chi ha avuto modo di conoscerlo e vederlo in azione dal vivo, ma sullo stesso terreno quest'anno l'amico Slaid Cleaves ha fatto capire come si possano fare dischi importanti anche conservando questo understatement-style da loser d'altri tempi.


mercoledì 18 dicembre 2013

THE STRYPES

The Strypes
Evitate di leggere la loro biografia e lasciate parlare solo la musica: gli Strypes non saranno il futuro del rock and roll, ma riescono benissimo ad incarnarne la continua attualità del suo passato. I motivi per storcere il naso davanti all’entusiasmo con cui sono stati accolti ci sono, e sono tutti plausibilissimi: da una parte la giovane età (tra i 15-17 anni) e la conseguente totale assenza di gavetta, dall’altra la completa e voluta non-originalità di Snapshot (Virgin). Il loro esordio infatti pesca a piene mani nella Londra beat della prima metà degli anni 60, quando band come Beatles, Rolling Stones o Kinks erano capaci di strizzare l’occhio alle classifiche senza perdere il contatto dai garage e dai pub in cui erano nati. Eppure per questi quattro adolescenti, provenienti da un paesello di poco più di tremila anime perduto nell’Irlanda del Nord, Londra è ancora un mito lontano da sognare e imitare. Snapshot è puro rock-retrò, ma fin dall’inizio appare convinto, urgente, sanguigno, deciso. Il gusto vintage degli Strypes piace perché suona sincero, anche quando ti chiedi chi gli abbia consigliato di rileggere classici del blues come You Can't Judge a Book by the Cover o Rollin' and Tumblin’ o di ripescare quel classico del pub-rock urbano che è Heart Of The City di Nick Lowe. E poi ci sono i loro brani, fedeli e ossequianti di una tradizione che ha cinquant’anni, e li dimostra con orgoglio.

Nicola Gervasini

domenica 15 dicembre 2013

THE BEST OF 2013

THE BEST OF 2013


Premio "Cago Oro anche quando cago storto"

BOB DYLAN Antother Self Portrait 



Premio "E' ora della pensione"

JOHN FOGERTY Wrote A Song... 




11 dischi attesi ma deludenti: li lascio fuori dai 100 per ripicca

1 JOHN GRANT Pale Green Ghosts -- Delusione del 2013 
2 NATIONAL Trouble will find me 
3 AVETT BROTHERS Magpie and Dandelion 
4 BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB Specter at the feast 
5 DEPECHE MODE Delta Machine 
6 ANNA CALVI One Breath 
7 ROBYN HITCHCOCK Love from London 2 
8 PEARL JAM Lightning Bolt 
9 BERNARD FANNING Departures 
10 BLUE RODEO In Our Nature 
11 JULIAN COPE Revolutionary Suicide 



passiamo alle cose serie 


TOP 10


1 ROY HARPER Man & Myth
2 DAVID BOWIE The Next Day
3 JJ GREY & MOFRO This River
 
4 OKKERVIL RIVER The Silver Gymnasium 
5 STEVEN WILSON The Raven That Refused to Sing (And Other Stories) 
6 JASON ISBELL Southeastern 
7 JONATHAN WILSON Fanfare 
8 NICK CAVE & THE BAD SEEDS Push The Sky Away 
9 PHOSPHORESCENT Muchacho 
10 AMOS LEE Mountains of Sorrow 


TOP 20


11 MAVIS STAPLES One True Vine 
12 SLAID CLEAVES Still Fighting the War 
13 HOUNDMOUTH From the Hills Below The City 
14 HAYWARD WILLIAMS Haymaker 
15 LEE HARVEY OSMOND The Folk Sinner 
16 LEE RANALDO Last Night On Earth 
17 STRYPES Snapshot 
18 JOSH RITTER The Beast In Its Tracks 
19 IRON & WINE Ghost on Ghost 
20 BILL CALLAHAN Dream River 


TOP 50


21 RELATIVES The Electric Word 
22 JC BROOKS & THE UPTOWN SOUND Howl 
23 BLACK JOE LEWIS Electric Slave 
24 LAURA MARLING Once I Was an Eagle          
25 ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND Lickety Split 
26 BARRENCE WHITFIELD & THE SAVAGES Dig Thy Savage Soul 
27 RICHARD THOMPSON Electric 
28 ARBOURETUM Coming Out Of The Fog 
29 BILLY BRAGG Tooth & Nail 
30 ELEONORE FRIEDBERGER Personal Record 
31 ELVIS COSTELLO & THE ROOTS Wise Up Gohst 
32 HOUNDSTOOTH Ride Out Of Dark 
33 ERIC BURDON Til Your River Runs Dry 
34 TONY JOE WHITE Hoodoo 
35 GUY CLARK My Favorite Picture of You 
36 LOW The Invisible Way 
37 PAUL McCARTNEY New 
38 SHOOTER JENNINGS The other life 
39 MAZZY STAR Seasons of your Day 
40 JOHNNY MARR The messenger 
41 LLOYD COLE Standards 
42 NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS World Boogie Is Coming 
43 STEVE EARLE The Low Highway 
44 BOY GEORGE This is what i do 
45 GRETCHEN WILSON Right on time 
46 ELTON JOHN The Diving Board 
47 MARK LANEGAN Imitations 
48 VALERIE JUNE Pushin' against a stone 
49 ANDERS OSBORNE Peace 
50 ISRAEL NASH GRIPKA Rain Plans 

TOP 100 (dischi "carini" non necessariamente in ordine)
 


51 TEDESCHI TRUCKS BAND Made Up My Mind 
52 THE RIDES Can't Get Enough 
53 STEPHEN FEARING Between Hurricanes 
54 SAM AMIDON Bright Sunny South 
55 SAM BAKER Say Grace 
56 BLACK LILLIES Runaway Freeway Blues 
57 BLACK SABBATH 13 
58 BUDDY GUY Rhythm & Blues 
59 CALIFONE Stitches 
60 CASE STUDIES This is another life 
61 CHARLES BRADLEY Victim of Love 
62 DAVE STEWART Lucky Number 
63 DEEP PURPLE Now? What! 
64 DREW HOLCOMB Good Light 
65 KURT VILE Waking on A Pretty Daze 
66 HOLLIS BROWN Ride on the train 
67 DANA FUCHS Bliss Avenue 
68 ANDREW COMBS Worried Man 
69 EELS Wonderful, Glorious 
70 GOV'T MULE Shout 
71 TIM EASTON Not Cool 
72 JOHN MELLENCAMP Ghost Brothers... 
73 MARK LANEGAN & DUKE GARWOOD Black Pudding 
74 STEVE GUNN Time Off 
75 PRIMAL SCREAM More Light          
76 SOUTHSIDE JOHNNY Songs from the Barn 
77 TRIXIE WHITLEY Fourth Corner 
78 WHITE BUFFALO Shadows, Greys & Evil Ways 
79 WILLIE NILE American Ride 
80 DAVID FORD Charge 
81 IAN McNABB Electric Warrior 
82 BEN HARPER & CHARLIE MUSSELWHITE Get Up 
83 DAWES Stories Don't End 
84 DEL LORDS Elvis Club 
85 IGGY & THE STOOGES Ready To Die 
86 MUDHONEY Vanishing Point 
87 NEKO CASE The Worse Things Get, the Harder I Fight... 
88 PATTY GRIFFIN American Kid 
89 SON VOLT Honky Tonk 
90 TERRY ALLEN Bottom of the world 
91 YO LA TENGO Fade 
92 ROD STEWART Time 
93 DAFT PUNK Random access memories 
94 DANNY & THE CHAMPIONS OF THE WORLD - Stay True 
95 ARCHIE ROACH Into the Bloodstream 
96 BOZ SCAGGS Memphis 
97 ZACHARY CALE The Blue Rider 
98 WHITE DENIM Corsicana Lemonade 
99 DAVID BROMBERG Only Slightly Mad 
100 ANAIS MITCHELL & JEFFERSON HAMER Child Ballads





ascolti italiani 

ANGELICA MENTE Inverno 1 e 2
CESARE CARUGI Ponchartrain
EVASIO MURARO Scontro tempo

e inoltre
SOUL PAINS Bitter Day
LUCA ROVINI Avanzi e guai
MOJO FILTER Roadskill Songs
MIAMI & The groovers No Way Back
LORENZO BERTOCCHINI Bootcut Shadows

sabato 7 dicembre 2013

OKKERVIL RIVER STORY: Will Sheff e la ricerca di Vera Vasilevna

OKKERVIL RIVER STORY:  Will Sheff e la ricerca di Vera Vasilevna


“Quando il sole si muove nel segno dello scorpione, il clima diventa ventoso, scuro e piovoso”.

Ecco come inizia un bel racconto, con una frase apparentemente nata dal nulla, gettata in pasto al lettore proprio quando lui non stava minimente pensando al tempo. Ma Will Sheff amava questi particolari, erano la sua ossessione al college ogni volta che provava a filmare quelli che nei suoi sogni sarebbero diventati i primi cortometraggi di un grande regista. E quei racconti di una misconosciuta autrice russa sembravano ideali per trarre la sceneggiatura di un esordio d’effetto, di quelli che ti fanno sembrare un uomo di grande cultura, perché esibire nomi sconosciuti da sempre l’impressione di conoscere a fondo un argomento. Eppure ogni volta che provava a riscrivere la storia e a pensare al film, qualcosa non andava, l’ispirazione giusta non arrivava mai. Finché poi capì qual’era il problema: la parole di quel racconto di Tatyana Tolstaya non gli evocavano immagini, ma suoni. Erano i suoni che sentiva il protagonista Simeonov, un solitario traduttore di brutti libri che non voleva cedere a sposare la normale e rassicurante Tamara solo per seguire il sogno di conoscere Vera Vasilevna, una diva della musica decaduta e ormai scomparsa dalle scene. Will cercava d’immaginarsi il film, ma alla fine era come se continuasse a sentire anche lui quel “vecchio e pesante disco di antracite colorata, non deturpato dai monotoni cerchi concentrici, con una canzone d’amore per lato.” Non aveva ancora in mente di fare veramente il musicista quando incontrò Seth Warren e Zachary Thomas, compagni di un college dello New Hampshire, ma soprattutto sezione ritmica improvvisata per le prime uscite in pubblico. Era la fine del 1998, Will aveva 22 anni e ancora troppe letture sulle spalle per avere le idee chiare su dove andare a parare nella vita. Quando nel gennaio del 1999 i tre fecero il loro primo concerto, Will si ricordò di quel racconto, e si ricordò di come si era immedesimato in Simeonov, che paragonava la diva dei propri sogni ad un fiume che un tempo fu bellissimo, ma che ora era deturpato da fabbriche e nuovi quartieri residenziali. L’Okkervil River però, nell’omonimo brano della Tolstaya, tagliava ancora la parte est di Leningrado con spavalda fierezza, con le barche che lo intarsiavano esattamente come la puntina del giradischi fendeva i solchi del 33 giri. Nacque così il nome della band, un’immagine perfetta per quel folk strano che veniva fuori dalla chitarra di Will. Che musica facevano gli Okkervil River? Nessuno al college era in grado di definirlo, pare che Will si fosse improvvisamente “intrippato” con i dischi della Incredible String Band, ensamble degli anni 60 che il folk lo avevo preso come pretesto per una musica stramba e irripetibile, psichedelia che si era spinta fino a confini indefinibili, rimasti inesplorati per almeno 3 decenni in cui il rock era andato altrove. Ma qualcosa in quella fine degli anni 90 stava cambiando, nelle vene del mercato discografico indipendente scorreva una nuova linfa che nutriva il rock con un folk scarno e minimale, un nuovo corso animato da nomi come Will Oldahm, Smog, Sparklehorse. Uno stile che anche le riviste di musica sparse nella sua stanza stentavano a definire, pure quando nel 1998 avevano decantato le lodi di un disco come  In The Aeroplane Over The Sea di quello strano gruppo chiamato Neutral Milk Hotel. Un disco che Sheff aveva ascoltato fino alla nausea, innamorato di quel sound primordiale, non più legato a canoni classici, ma libero di spaziare, di deviare, di stonare anche. Già, perché Will era sempre stato un po’ stonato, uno di quelli che quando si canta in compagnia cerca di raggiungere note a lui non consentite gracchiando e deragliando rovinosamente. Quando gli Okkervil River si esibirono per la prima volta allo Steamboat, si presentarono già con un cd masterizzato intitolato The Bedroom EP, roba grezza creata davvero nel suo dormitorio da studente, quanto basta per dare una prima idea della band. Vale a dire nessuna idea precisa.


“In giorni come questi, quando la pioggia, l’oscurità e il vento che batte sulle finestre riflettono la solenne faccia della solitudine…”
All’inizio dell’estate del 1999 Will Sheff è nel pieno della depressione, I suoi propositi da regista non trovano sviluppi, e il progetto Okkervil River non sembra aver suscitato l’interesse sperato. Si era di nuovo chiuso nella sua stanza per scriver nuove canzoni, esattamente come Simeonov nel racconto della Tolstaya si isolava in camera per sognare, ascoltando il disco della sua diva perduta. Ma nulla più usciva dalla sua chitarra, solo un’ossessiva voglia di riascoltare quanto aveva registrato con i suoi amici l’anno prima in soli tre giorni. Ma esattamente come Simeonov non si era dato per vinto e si era veramente messo a cercare la sua Vera per le vie di Leningrado, così Sheff da quella stanza uscì con due decisioni: la prima era quella che nella vita avrebbe semplicemente voluto fare il fallito, la seconda che avrebbe pubblicato quei nastri di registrazioni casalinghe. Vera d’altronde viveva da qualche parte in Leningrado, dimenticata da tutti meno che da quei pochi ossessivi fans che collezionavano i suoi dischi come cimeli. E così vivevano quelle canzoni, nel suo cassetto, visitate ossessivamente solo dal loro creatore, nonché unico fan. Stars Too Small to Use è nato così, 31 minuti di musica registrata in presa diretta, negli anni 60 un minutaggio normale per un disco, nei 90, dopo la sbornia dei cd a lunga durata e la moda di fare album di 70 minuti, il disco venne catalogato come EP. Ancora oggi le canzoni di quell’esordio sono oggetto di discussione tra i fans, ma che la poetica di Sheff non sarebbe andata per sentieri convenzionali lo si capiva subito dal personaggio descritto in Auntie Alice, una zia che potrebbe anche essere un simulacro sessuale da commedia sexy, di quelle che ti svegliano in mezzo la notte per offrire dolce cioccolato proprio quando gli ormoni richiedono vittime, ma anche un personaggio oscuro e quasi tetro, che alleva ragni e ulula nei boschi con la sua bocca sdentata. In ogni caso nel disco si raccontano omicidi passionali (Kathy Keller), storie di pura alienazione sociale (Oh Precious), segni di una contorta religiosità sospesa tra redenzione e rifiuto di un Dio e semplice ansia per la vita (For The Captain o The Velocity of Saul at the Time of His Conversion), oscuri presagi (He Passes Number Thirty-Trhee) e la normale paura del futuro di chi della strada che percorre vede solo l’inizio (Whole Wide World). Tutte storie lontane dal binomio donne spezzacuori/ubriacature moleste di eroi di frontiera che popolava il 90% delle canzoni partorite dall’industria discografica di Austin.


“…un muto, soffocante e puzzolente fumo, o qualcosa’altro di disperato, provinciale e banale.”

Alla fine di uno dei soliti concerti in cui si aveva difficoltà anche a far pronunciare correttamente il nome della band dai presentatori (Okkerut River, Occerville River, venne fuori di tutto), Sheff venne avvicinato da un giovane che gli disse “siete la cosa peggiore che io abbia mai sentito…ma so per certo che lo avete fatto apposta”. Jonathan Meiburg entrò nel gruppo così, grazie ad un insulto. In dote portava una perizia tecnica superiore, nata in ore e ore di studio ossessivo degli assoli di David Gilmour, ma anche la capacità di suonare più strumenti a corde, tastiere, percussioni…sembrava davvero che quel ragazzo potesse governare qualsiasi oggetto in grado di emettere suoni. Poi arrivò un articoletto sull’Austin Chronicle, uno di quei trafiletti bonari e compiacenti verso qualche giovane band, ma abbastanza preciso da captare l’attenzione di Brian Beattie, musicista che Will Sheff conosceva bene perché aveva registrato con Daniel Johnston, paladino di quella Austin più oscura che ovviamente lui aveva preso a modello. E’ nel garage di Beattie che è nato nel corso del 2000 Don’t Fall in Love with Everyone You See, esattamente quell’opera che nei sogni di Sheff gli avrebbe aperto le porte della riconoscenza del mondo musicale e soprattutto reso giustizia alla sua arte, esattamente come Simeonov voleva render giustizia alla dimenticata Vera. Ma qualcosa andò storto, Jeff inviò i nastri a tutte le case discografiche della zona, ma dopo un anno l’unica risposta semi-positiva l’aveva data la Jagjaguwar, interessata al prodotto ma con poche possibilità di pubblicarlo a breve. E così quelle nove canzoni restavano lì, nel cassetto, a sentirsi da sole e ad invecchiare come Vera. Ma Sheff credeva in quelle registrazioni, le aveva studiate e ristudiate, aveva deciso che Red (un triste valzer che narra di una madre che vede nei facili costumi e nella vita dissoluta della figlia i segni del proprio fallimento di genitore) avrebbe aperto le danze del disco, che il viaggio a ritmo di slow-country in cerca di cocaina e perdizione della coppia di Kansas City avrebbe continuato il tragico racconto, e che la sofferta Lady Liberty, ambigua tra il suo essere una canzone di amore irrisolto o una metafora politica, avrebbe impedito all’ascoltatore di rilassarsi veramente. Perché poi sarebbe arrivata My Bad Days, una mazzata emozionale, un rito funebre delle proprie paure, lenta, triste, quasi insostenibile nell’interpretazione rotta e piagnucolante della voce, e poi ancora Westfall, tesa murder-song vicina al country di Austin, dove l’amicizia di due ragazzi sembra essere l’unico movente possibile per il fatto che abbiano ucciso le ragazze appena rimorchiate, visto che quando i poliziotti guardano negli occhi uno dei protagonisti per cercarvi il male, scoprono quanto esso sia irriconoscibile e fortemente somigliante al nulla. Will aveva frenesia di far conoscere al mondo il suo lavoro a due voci con il mito Daniel Johnston (Happy Hearts), la corsa dei mandolini di Dead Dog Song, e si rifiutava di lasciare nell’oblio una canzone come Listening to Otis Redding at Home During Christmas, dove al verso “casa è dove i letti sono fatti e il burro è spalmato sul toast”, fa eco un Will che ribadisce che no, casa è dove nello stereo risuona I’ve Got Dreams To Remember di Otis Redding. Il finale del disco era invece affidato ad Okkervil River Song, non la storia del racconto della Tolstaya, ma un triste ricordo di bei momenti passati sul fiume con una donna che al risveglio non c’è già più. Troppa tristezza forse? Eppure in quegli anni la musica non esprimeva certo gioia neppure alla radio, il gruppo più acclamato della fine degli anni 90 erano stati i Radiohead, che avevano insegnato al mondo a sondare le tragedie personali senza alcuna remora stilistica, e le cose più rassicuranti che uscivano dal mondo del nuovo folk erano i gruppi soft-core come Belle & Sebastian o Arab Straps, musica molto melodica che faceva della malinconia il proprio dardo infuocato. Ma quel mezzo folk mezzo country mezzo non-so-chè degli Okkervil River non aveva senso per nessuno, e quando nel settembre del 2001 Will vide le torri di Ground Zero cadere in una massa di fumo e fuoco, la sensazione che la tragica realtà non potesse più essere sublimata da nessuna arte lo mandò in depressione totale.
Nel gennaio del 2002 finalmente la Jagjaguwar trovò spazio per il disco nel suo catalogo, senza dannarsi troppo nella promozione. Don’t Fall in Love with Everyone You See vendette poco in proporzione alle positive recensioni che ricevette, per cui via a squallidi tour con notti passate per terra e tanti concerti senza paga se non la birra e la bistecca di sopravvivenza. Una vita che Seth Warren decise di abbandonare, mentre Sheff e Mellburg passavano le ore a scrivere canzoni e a scambiarsi idee artistiche, un’intesa che aveva bisogno di uno sfogo personale per Jonathan, che chiese all’amico di fondare un progetto parallelo che battezzarono in quell’estate del 2001 con il nome di un uccello marino, Shearwater.


Suonò alla porta di Vera. “Pazzo” gli disse il suo diavoletto sulla sinistra.

La Jagjaguwar fu comunque soddisfatta dei risultati e per il secondo capitolo spedì la band a San Francisco a cercare ispirazione e suoni giusti. Sheff si sentiva ora davvero come Simeonov, che incurante dei pericoli che la coscienza gli evidenziava, si reca a casa di Vera per vedere se davvero il suo mito era così malridotto, immaginandola romanticamente abbandonata nella propria arte, accantonata dall’ignoranza comune, incapace di leggere nei solchi dei suoi vinili la sublimazione massima del suono dell’amore. Il risultato delle sessions, registrate con la nuova formazione a quattro comprendente Meiburg, fu il disco Down The River Of The Golden Dreams, album indolente e melmoso come le acque dell’Okkervil River descritte dalla Tolstaya. Il titolo divenne fin da subito un nuovo caposaldo dell’indie-rock, definizione che nel 2003 aveva ormai assunto una consolidata connotazione. Il disco era perfettamente dosato tra il suo essere sofferto fin dalla micidiale accoppiata iniziale It Ends With A Fall e For The Enemy, ma musicalmente presentava un inedito “wall of sound” che aveva perso tutto il folk minimale degli esordi in favore delle maestose aperture strumentali di Blanket And Crib, fatte di organi hammond, fiati, archi. Mancavano giusto i cori femminili perché si potesse tranquillamente parlare di una nuova via lo-fi del Phil Spector-pensiero. Anche la scrittura di Sheff era cresciuta vertiginosamente, capace di toccare vette letterarie come The War Criminal Rises And Speaks, sorta d’imparziale processo ad un carnefice, visto sia con gli occhi di chi racconta che del criminale stesso, che invita a considerare la sua situazione umana prima di giudicare.  In ogni caso tutto suona maturo, anche la nuova versione di The Velocity Of Saul At The Time Of His Conversion, non più sofferta e urlata come sul disco d’esordio, ma tranquilla e ragionata, oltre che impercettibilmente più arrangiata. Nonostante il grande dispiego di session men e strumenti, non c’era comunque nessuna concessione alla spettacolarità, brani come Dead Faces o Maines Island Lovers richiedevano un ascolto attento sia alle liriche sempre piene di trabocchetti e sensi nascosti, sia alle contorte trame sonore, raramente orecchiabili fin da subito (solo Song About A Star ricorreva ad un ritornello realmente riconoscibile al primo ascolto). Un disco inviluppato nel suo esistenzialismo (Yellow), ma meravigliosamente dosato in ogni sua componente, anche quelle inevitabilmente più melodrammatiche e auto-compiacenti (Seas Too Far To Reach).



“O beata solitudine! La solitudine mangia direttamente dalla padella, trafigge una fredda polpetta di carne direttamente da un sudicio mezzo vasetto, fa il tè direttamente nella tazza, insomma…Pace e Libertà!”

Ormai riconosciuti dalla critica e già eletti a gruppo cult dalle nuove generazioni, gli Okkervil River nel 2005 licenziano la loro opera più ambiziosa, Black Sheep Boy. Libero di muoversi artisticamente, Sheff allarga la formazione a sei elementi, e utilizza un personaggio uscito dalla penna del cult-songwriter Tim Hardin per dar vita ad una sorta di concept che unisce tante storie diverse, dove è sempre comunque centrale la figura di una “pecora nera”, ragazzi frustrati (For Real), depressi (In a A Radio Song), o anche abusati (Black). Mai come in questo disco il mondo di Sheff si popola di freaks che non sono solo quelli della tetra copertina di William Schaff, ma anche personaggi che manifestano sempre un’impossibilità di amare che spesso è forzata da una realtà che non li accetta, come nel brano A Stone (ma il finale rivelatorio della storia sarà nel brano Song Of Our So-Called Friend), dove anche il classico triangolo da tragedia lui-ama-lei-ma-lei-ama-un-altro si trasforma in una grottesca storia degna di un film di Tim Burton, dove lei, piuttosto che amare lui, ama un altro ormai morto e ridotto a pietra tombale. Forte poi anche di un EP chiamato Appendix che nelle successive riedizioni renderà l’opera doppia e forse fin troppo monumentale, Black Sheep Boy musicalmente riusciva a tenere un perfetto equilibro tra le sue atmosfere dark e deprimenti e la grandeur di strumenti e muri del suono, quasi che Sheff abbia realizzato con successo e con 28 anni di ritardo quanto Leonard Cohen e Phil Spector avevano rovinosamente tentato di fare con l’album Death Of A Ladies Man. Le reazioni della critica furono entusiaste, anche se il disco si rivelò ostico e contribuì a dare alla band la fama di indie-band per intenditori di nicchia.


“Vera Vasilevna è morta, morta da tanto tempo, uccisa, smembrata e mangiata da questa vecchia signora”

Simeonov alla fine del racconto scopre che il suo mito Vera è diventata una patetica signora, ancora circondata da adulatori e uomini piccoli che le ricordano quotidianamente la propria antica grandezza. Una scena squallida che fa capire la differenza tra mito e realtà, il tradimento finale della star rispetto al fan che viveva “nella” e “per la” sua immagine. Sembrò quasi logico dunque il “tradimento” operato con il successivo The Stage Names, senza dubbio il disco più accessibile e public-friendly della band, concepito da Sheff proprio per essere un altro lungo concept sul quanto l’arte abbia saputo produrre allo stesso tempo opere durature o immense patacche, e dunque su quanto i “nomi d’arte” del titolo non mettano al riparo le star dalle miserie della vita (Our Life Is Not A Movie Or Maybe è il significativo titolo che apre l’album). La girandola di stili che anima l’album è stordente, dalla lunga Girl In Port che strizza l’occhio a Van Morrison ad una A Hand To Take Hold of The Scene che mette in vetrina addirittura riff da rock-band, e altrove ancora influenze soul che cominciano ad allontanare la band del freak-folk a cui venivano generalmente associati. Tantissimi i riferimenti ad opere musicali: John Allyn Smith Sails richiama nel finale Sloop John B dei Beach Boys, il titolo del brano You Can’t Hold the Hand of A Rock And Roll Man ruba un verso di Blonde in the Bleachers di Joni Mitchell, Plus Ones è una sorta di gioco a comporre un testo con titoli di altre canzoni aggiungendoci un uno ad ogni numerazione (ad esempio: TVC15 di Bowie diventa TVC16, le 96 Tears dei ? & The Mysterians qui sono 97, ecc..) Ma anche reminiscenze letterarie (Title Track è ispirata dal libro scandalo Hollywood Babylon di Kenneth Anger), cinematografiche (Savannah Smiles è la storia della nota pornostar Savannah, A Hand to Take Hold of the Scene descrive le loro esperienze nel mondo delle serie TV) e tanto altro che ogni fan possa sbizzarrirsi a svelare. Una girandola di riferimenti volutamente volta a non dividere bello da brutto, arte da spazzatura, che trova la sua sublimazione anche nell’appendice al disco, che stavolta non esce come compendio, ma sottoforma di vero e proprio album a sè stante con il titolo di The Stand-ins (ma con disegno di copertina che completa quella di The Stage Names, a testimonianza della stretta parentela), con altre riflessioni sulla vita da artista e rock-band (Singer Songwriter, On Tour With Zykos e una Lost Coastlines che chiama a duettare l’amico - e ormai sempre più dedicato al progetto Shearwater - Jonathan Meiburg su un testo che parla proprio delle difficoltà di rimanere nella stessa band con i tanti impegni diversi presi), finali di storie precedentemente iniziate (Starry Stairs racconta del suicidio della stessa Savannah di Savannah Smiles) e storie di rockstar mancate e dimenticate (Bruce Wayne Campbell Interviewed on the Roof of the Chelsea Hotel, 1979, sullo sfortunato glam-rocker Jobriath). La critica sui due dischi comincia a dividersi, ma vendite e popolarità garantiscono finalmente a Sheff e soci un futuro più sicuro.

“Ancora uno!”

Le storie di Simeonov e Sheff hanno un finale diverso: il primo alla fine smette di vivere di sogni esattamente come il secondo, il quale ha avuto però migliore fortuna, ha trovato la sua Vera nella figura di Rory Erickson, anche lui rockstar decaduta, ma con ancora dentro tanta musica da comunicare e quella grandiosità artistica che Simeonov sperava di trovare nella sua diva. Erickson invece, grazie a Sheff e agli Okkervil River, pubblica il disco migliore della sua carriera (True Love Cast Out All Evil) e dimostra che forse è proprio la lucida follia del vecchio leader dei 13th Floor Elevators l’unico vero tratto distintivo dell’artista in grado di preservarlo dalle miserie quotidiane tipiche dell’uomo comune. Per Sheff è dunque stato tempo di una lunga pausa, per ripartire con una nuova maturità, una verginità persa, e un disco adulto e concreto come I Am Very Far, che è l’inizio di una storia nuova e completamente diversa da quella nata in quel college dello New Hampshire. Una storia in cui i sogni infranti di Simeonov non sono più previsti.
Nicola Gervasini


I brani in corsivo sono tratti dal racconto “Okkervil River” di Tatyana Tolstaya, dal libro “White Walls”, Ed. Nyrb (mai tradotto in Italia).

domenica 24 novembre 2013

RAINDOGS


 Raindogs
Lost Souls 
[ATCO/ Atlantic 1973]
TRACKLIST: 1. I'm Not Scared // 2. May Your Heart Keep Beating// 3. Phantom Flame // 4. The Higher Road // 5. Too Many Stars // 6. Nobody's Getting Out // 7. Cry for Mercy// 8. Adventure// 9. This Is the Place // 10. Under the Rainbow // 11. I Believe // 12. Something Wouldn't Be the Same
 File Under: roots rock
di Nicola Gervasini
"Troppe stelle e non abbastanza cielo": The Raindogs Story

Raccontata oggi la vicenda dei Raindogs fa solo rabbia. Perché nel 2013 probabilmente la band di Mark Cutler sarebbe una delle tante che ci allietano le giornate con dischi autoprodotti con mezzi sufficienti a renderli più che ascoltabili, garantendosi così una lunga e ininterrotta discografia a uso e consumo di pochi appassionati. Ma un disco come Lost Souls, produzione di serie A sia per livello tecnico che di contenuti, oggi non lo avrebbero potuto fare, questo è certo. Ma andiamo con ordine e partiamo dall'inizio. I Raindogs nascono nel 1989 su spinta di una casa discografica, la Atco. Non un etichetta qualsiasi, ma la più importante sottomarca della Atlantic, quella per cui pubblicarono gruppi come Cream, Who, Bee Gees e Buffalo Springfield negli anni sessanta, e responsabile della scoperta degli AC/DC negli anni settanta. Una label però moribonda a fine anni ottanta, con evidenti difficoltà a ridefinire l'identità del proprio catalogo nell'era del pop sintetizzato. E' in questo scenario di decadenza che arriva la decisione a tavolino di creare una band che riassumesse tutti gli umori più vendibili del nuovo roots-rock americano, risvegliato dalle ottime vendite di John Mellencamp e Tom Petty. Non era un atto isolato in fondo: l'operazione di cercare di rendere moderna e commerciabile una scena che per anni aveva raccolto complimenti ma vendite irrisorie era già stata applicata ai Del Fuegos del radio-friendly Stand Up, ai Rave-ups ripuliti e levigati di The Book of Your Regrets, ai Beat Farmers di The Pursuit of Happiness, e forse, a ben guardare, anche ai Green On Red di This Time Around. Così la Atco assoldò un vecchio produttore di grido, Peter Henderson (il suo vertiginoso curriculum partiva dai King Crimson del 1974 e arrivava fino al Paul McCartney di Flowers in The Dirt) e gli diede il compito di far diventare una band di successo un'accolita di avanzi del rock urbano degli anni ottanta.

Mark Cutler in verità non era poi così un parvenu: i suoi Schemers erano stati la next big thing di Boston per lungo tempo (suonarono come backing band per Sam & Dave e aprirono tour per Talking Heads e Throwing Muses), ma il loro bottino dopo sei anni di attività ammontava ad un misero 45 giri. E Cutler era in fondo quello con il curriculum più povero (insieme al chitarrista Emerson Torrey, anche lui proveniente dagli Schemers), perché il quintetto poteva con un po' di buona volontà essere definito un "supergruppo". Il batterista Jim Reilly aveva militato negli Stiff Little Fingers dal 1979 al 1981, e poi aveva raggiunto il bassista Darren Hill nei mitici Red Rockers, band oggi forse dimenticata, ma in verità tra le poche realtà Blasters-like ad avere venduto qualcosa con i loro tre album pubblicati tra il 1981 e il 1984, ma la star della band era il violinista Johnny Cunningham, coraggioso innesto proveniente dal brit-folk di marca scozzese e musicista già titolare di una lunga discografia con i Silly Wizard e da solista. Con questa formazione, denominata Raindogs in omaggio al capolavoro di Tom Waits, Henderson si inventa un suono che riusciva a citare Dexys Midnight Runners (soprattutto nell'utilizzo dei fiati e in un certo uso di toni soul), Del Fuegos e il John Mellencamp rurale di The Lonesome Jubilee in un colpo solo. In più il tocco celtico di Cunnigham e il cantato dylaniano e dilaniato di Cutler creavano un insieme unico, sebbene assemblato con mattoni rubati ad altre case.

I dodici brani confezionati per Lost Souls funzionavano alla grande, unendo appeal melodico (Too Many StarsOver The Rainbow) e attitudine al rock stradaiolo (The Higher RoadMay Your Heart Keep Beating). Probabilmente il tocco folk, che molti critici scambiarono per country-rock, giocò a loro sfavore: Lost Souls quando uscì nel 1990 ottenne solo una serie di inascoltate critiche positive sulle riviste specializzate, ma, complice anche la debolezza sul mercato della Atco, finì presto a ingrossare i magazzini dei "forati", nonostante una certa buona rotation su MTV del video di I'm Not Scared. La storia dei Raindogs a questo punto si colora poi di toni grotteschi: per qualche imperscrutabile via del pensiero marketing la Atco decise che sulla band si poteva puntare ancora qualche soldo, ma con logiche produttive differenti. Un gesto disperato e fuori tempo, e perpetrato con quel disastro (commerciale e artistico) che sarà il secondo album Border Drive-in Theatre. A produrre viene chiamato l'esperto e costoso Don Gehman, proprio il deus ex machina del John Mellencamp "era Cougar" della prima metà degli anni ottanta, ma la sua scelta, volta verso un suono FM e arena-rock, inutilmente sovraprodotto e malamente pompato, fornisce esiti anche imbarazzanti. Nel disco viene coinvolto in un talking anche Iggy Pop, ma se glielo chiedete oggi può darsi che neanche lui se ne ricordi. Anche perché, esattamente pochi giorni dopo l'uscita del disco, la Atco viene fusa con la East-West Records, inutile passaggio societario che non eviterà nel 1994 all'etichetta di fallire definitivamente (il marchio sarà riesumato solo nel 2006). La fusione eliminò però il management che aveva creduto nei Raindogs, e così i cinque si ritrovarono senza staff organizzativo proprio nel momento di fare promozione e tour per il disco. In altre parole, erano a piedi. E come tutti i gruppi nati negli uffici di una casa discografica, si dissolsero in pochi giorni.

Negli anni successivi i membri della band hanno lasciato poche tracce: Mark Cutler tentò la via solista, ma i suoi album (tre ufficiali, ma pare molti di più a livello amatoriale) sono passati inosservati. Negli anni duemila riformerà gli Schemers e suonerà nei Dino Club, ma ormai senza più uscire allo scoperto. Darren Hill invece è passato a fare il manager musicale per New York Dolls e Paul Westerberg mentre il bravo Johnny Cunnigham tornò in Scozia e proseguì la sua ragguardevole carriera nel mondo folk fino alla morte nel 2003. Una storia emblematica, fatta di logiche oggi impensabili, e una delle tante vicende rock che lascia aperto un dubbio: a lasciarli produrre liberamente i Raindogs sarebbero stati un grande gruppo, oppure Lost Souls è solo un piccolo miracolo nato proprio grazie al sapiente know-how di mestieranti del rock? Un quesito che vale per tantissime realtà rock di un tempo, e che rimarrà probabilmente senza risposta. Intanto a noi resta ancora oggi il piacere di riascoltare Lost Souls: lo trovate anche nei nostri cento dischi da "strade blu" degli anni novanta, e non lo toglieremmo mai.


giovedì 21 novembre 2013

ISRAEL NASH GRIPKA

 
 Israel Nash GripkaIsrael Nash's Rain Plans
[Loose/ CRS 
2013]
www.israelnash.com


 File Under: forever Young

di Nicola Gervasini (03/10/2013)
Bisogna arrendersi all'idea che il rock (perdonatemi l'uso generalista e omnicomprensivo del termine) non sia più un'epopea comune da poter raccontare con lo stesso piglio letterario con cui si ricordano i suoi pionieri. Non è questione di fare tante filosofie sul fatto che "il rock ha già detto tutto" e che "i giovani non valgono i vecchi". Il rock, e Israel Nash Gripka ce lo conferma, è sempre lo stesso di un tempo, e continua a rispondere alle esigenze del pubblico con le stesse armi: metti l'accento sulla melodia, sul ritmo, sul suono, sulla rabbia, sulla libera espressione, sulle storie da raccontare o anche sulla bellezza del nulla ben cantato come il mondo X Factor e compagnia bella. Quale sia il rock di cui avete bisogno, gli schemi, le canzoni e i metodi restano gli stessi di sempre. E' cambiato il pubblico però. E' più ampio, anche quello di nicchia, e fagocita musica a chili grazie alle nuove piattaforme d'ascolto. Per cui il nostro ruolo va ripensato in base al fatto che chi arriva ad un autore come Isarel Nash Gripka ha già operato la sua scelta a monte. Cerca l'"autore", e soprattutto cerca i suoni a lui cari, che gli diano l'impressione che "il rock di oggi sia come quello di quarant'anni fa".

In questo senso Israel Nash's Rain Plains è un disco perfetto, "un capolavoro" si sparerà a vanvera nei commenti social, perché mette sul piatto quello che molto del pubblico "di nicchia" (perdonatemi se insistito con l'insulto) che segue anche le nostre pagine alla fin fine cerca: il nuovo Neil Young. C'è poco da fare discussioni qui dentro, se non notare lo spostamento del baricentro d'ispirazione dal Ryan Adams simulato in New York Town del 2009 e i Rolling Stones echeggiati qua e là in Barn Doors and Concrete Floors del 2011 alla musica del canadese rock per eccellenza, che qui affiora prepotente ovunque, fino ad arrivare al quasi-plagio di Rain Plans, brano che riesce in un solo colpo ad imitare tutto On The Beach usando un ritornello che ricorda Cowgirl In The Sand e una lunga coda strumentale che piacerebbe tanto al giovane Jonathan Wilson. Gripka ha pure cambiato il modo di cantare per questa operazione, usa più i falsetti e non sforza quasi mai il tono rauco della sua ugola. E imbastisce uno show tutto "acustiche West Coast" + "elettriche da cavallo pazzo" a uso e consumo dei suoi (di Gripka) e di quell'altro (Young) fans.

Poi le citazioni non finiscono lì: chissà quanti si saranno messi a canticchiare Whish You Were Here dei Pink Floyd non appena parte Iron Of The Mountain, e infine giocateci voi a scoprire quelle che non abbiamo colto. L'impressione è che Gripka ci abbia voluto coinvolgere in una sfida al "senti come sono bravo ad essere come quelli là" da cui ne esce quasi vincitore, perché alla fine la sostanza c'è, vedi brani come Woman At The WellJust Like Water Mansions che probabilmente vorremmo sempre sentirgli cantare nei prossimi concerti. Ma ha anche prodotto la sua opera meno personale, più al servizio del pubblico. Non è detto che sia un male, Israel Nash's Rain Plains conferma che non ci siamo sbagliati a vedere in lui un autore superiore alla massa ormai incontrollabile di questi ultimi anni, ma speriamo che per il prossimo passo si ricordi di ribadire con fierezza di essere Gripka, non Young.



 

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