Pensare a Massimo Priviero vuol dire ricordare la sua San Valentino e il primo rocker nostrano
che tradusse in italiano l’epica del No
Surrender springsteeniano. Oppure si può rivederlo negli anni novanta a
guidare la schiera dei tanti “perché Ligabue sì e io no?”, abbandonato da un industria
discografica incapace di valorizzarne le potenzialità (anche commerciali).
Oppure lo si può ritrovare oggi con il nuovo disco Ali di Libertà (Mpc Records), ormai intento a vestire il ruolo di
vecchio guru della canzone rock italiana. Ne ha ben diritto in fondo, vuoi
perché i suoi dischi sono ben prodotti e continuano ad attirare un pubblico
fedele (e tutto sommato ampio, considerato quanto di nicchia è diventato questo
rock da noi), vuoi perché la sua musica ha ancora “fame di cuore guerriero”,
per dirla come nella programmatica In
Verità. Priviero continua da irriducibile a combattere una battaglia che ha
generato tanto sudore e poche vere rivoluzioni, e insiste a cantare testi come Alzati (“ora o mai più”) o Io sono là (“e la mia guerra non è mai
finita”), chiamando a raccolta un esercito di disillusi e invecchiati rock-fans
che non hanno ancora smesso di lavorare ad un sogno. Potrà rispondergli solo
chi è nello spirito adatto, ma tra i tanti saggi e giullari impotenti di questa
nostra Italia in decadenza, qualcuno che ci crede ancora serve sempre. Sia mai
che poi alla fine si scopre che ha ragione lui.
Nicola Gervasini
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