sabato 7 dicembre 2013

OKKERVIL RIVER STORY: Will Sheff e la ricerca di Vera Vasilevna

OKKERVIL RIVER STORY:  Will Sheff e la ricerca di Vera Vasilevna


“Quando il sole si muove nel segno dello scorpione, il clima diventa ventoso, scuro e piovoso”.

Ecco come inizia un bel racconto, con una frase apparentemente nata dal nulla, gettata in pasto al lettore proprio quando lui non stava minimente pensando al tempo. Ma Will Sheff amava questi particolari, erano la sua ossessione al college ogni volta che provava a filmare quelli che nei suoi sogni sarebbero diventati i primi cortometraggi di un grande regista. E quei racconti di una misconosciuta autrice russa sembravano ideali per trarre la sceneggiatura di un esordio d’effetto, di quelli che ti fanno sembrare un uomo di grande cultura, perché esibire nomi sconosciuti da sempre l’impressione di conoscere a fondo un argomento. Eppure ogni volta che provava a riscrivere la storia e a pensare al film, qualcosa non andava, l’ispirazione giusta non arrivava mai. Finché poi capì qual’era il problema: la parole di quel racconto di Tatyana Tolstaya non gli evocavano immagini, ma suoni. Erano i suoni che sentiva il protagonista Simeonov, un solitario traduttore di brutti libri che non voleva cedere a sposare la normale e rassicurante Tamara solo per seguire il sogno di conoscere Vera Vasilevna, una diva della musica decaduta e ormai scomparsa dalle scene. Will cercava d’immaginarsi il film, ma alla fine era come se continuasse a sentire anche lui quel “vecchio e pesante disco di antracite colorata, non deturpato dai monotoni cerchi concentrici, con una canzone d’amore per lato.” Non aveva ancora in mente di fare veramente il musicista quando incontrò Seth Warren e Zachary Thomas, compagni di un college dello New Hampshire, ma soprattutto sezione ritmica improvvisata per le prime uscite in pubblico. Era la fine del 1998, Will aveva 22 anni e ancora troppe letture sulle spalle per avere le idee chiare su dove andare a parare nella vita. Quando nel gennaio del 1999 i tre fecero il loro primo concerto, Will si ricordò di quel racconto, e si ricordò di come si era immedesimato in Simeonov, che paragonava la diva dei propri sogni ad un fiume che un tempo fu bellissimo, ma che ora era deturpato da fabbriche e nuovi quartieri residenziali. L’Okkervil River però, nell’omonimo brano della Tolstaya, tagliava ancora la parte est di Leningrado con spavalda fierezza, con le barche che lo intarsiavano esattamente come la puntina del giradischi fendeva i solchi del 33 giri. Nacque così il nome della band, un’immagine perfetta per quel folk strano che veniva fuori dalla chitarra di Will. Che musica facevano gli Okkervil River? Nessuno al college era in grado di definirlo, pare che Will si fosse improvvisamente “intrippato” con i dischi della Incredible String Band, ensamble degli anni 60 che il folk lo avevo preso come pretesto per una musica stramba e irripetibile, psichedelia che si era spinta fino a confini indefinibili, rimasti inesplorati per almeno 3 decenni in cui il rock era andato altrove. Ma qualcosa in quella fine degli anni 90 stava cambiando, nelle vene del mercato discografico indipendente scorreva una nuova linfa che nutriva il rock con un folk scarno e minimale, un nuovo corso animato da nomi come Will Oldahm, Smog, Sparklehorse. Uno stile che anche le riviste di musica sparse nella sua stanza stentavano a definire, pure quando nel 1998 avevano decantato le lodi di un disco come  In The Aeroplane Over The Sea di quello strano gruppo chiamato Neutral Milk Hotel. Un disco che Sheff aveva ascoltato fino alla nausea, innamorato di quel sound primordiale, non più legato a canoni classici, ma libero di spaziare, di deviare, di stonare anche. Già, perché Will era sempre stato un po’ stonato, uno di quelli che quando si canta in compagnia cerca di raggiungere note a lui non consentite gracchiando e deragliando rovinosamente. Quando gli Okkervil River si esibirono per la prima volta allo Steamboat, si presentarono già con un cd masterizzato intitolato The Bedroom EP, roba grezza creata davvero nel suo dormitorio da studente, quanto basta per dare una prima idea della band. Vale a dire nessuna idea precisa.


“In giorni come questi, quando la pioggia, l’oscurità e il vento che batte sulle finestre riflettono la solenne faccia della solitudine…”
All’inizio dell’estate del 1999 Will Sheff è nel pieno della depressione, I suoi propositi da regista non trovano sviluppi, e il progetto Okkervil River non sembra aver suscitato l’interesse sperato. Si era di nuovo chiuso nella sua stanza per scriver nuove canzoni, esattamente come Simeonov nel racconto della Tolstaya si isolava in camera per sognare, ascoltando il disco della sua diva perduta. Ma nulla più usciva dalla sua chitarra, solo un’ossessiva voglia di riascoltare quanto aveva registrato con i suoi amici l’anno prima in soli tre giorni. Ma esattamente come Simeonov non si era dato per vinto e si era veramente messo a cercare la sua Vera per le vie di Leningrado, così Sheff da quella stanza uscì con due decisioni: la prima era quella che nella vita avrebbe semplicemente voluto fare il fallito, la seconda che avrebbe pubblicato quei nastri di registrazioni casalinghe. Vera d’altronde viveva da qualche parte in Leningrado, dimenticata da tutti meno che da quei pochi ossessivi fans che collezionavano i suoi dischi come cimeli. E così vivevano quelle canzoni, nel suo cassetto, visitate ossessivamente solo dal loro creatore, nonché unico fan. Stars Too Small to Use è nato così, 31 minuti di musica registrata in presa diretta, negli anni 60 un minutaggio normale per un disco, nei 90, dopo la sbornia dei cd a lunga durata e la moda di fare album di 70 minuti, il disco venne catalogato come EP. Ancora oggi le canzoni di quell’esordio sono oggetto di discussione tra i fans, ma che la poetica di Sheff non sarebbe andata per sentieri convenzionali lo si capiva subito dal personaggio descritto in Auntie Alice, una zia che potrebbe anche essere un simulacro sessuale da commedia sexy, di quelle che ti svegliano in mezzo la notte per offrire dolce cioccolato proprio quando gli ormoni richiedono vittime, ma anche un personaggio oscuro e quasi tetro, che alleva ragni e ulula nei boschi con la sua bocca sdentata. In ogni caso nel disco si raccontano omicidi passionali (Kathy Keller), storie di pura alienazione sociale (Oh Precious), segni di una contorta religiosità sospesa tra redenzione e rifiuto di un Dio e semplice ansia per la vita (For The Captain o The Velocity of Saul at the Time of His Conversion), oscuri presagi (He Passes Number Thirty-Trhee) e la normale paura del futuro di chi della strada che percorre vede solo l’inizio (Whole Wide World). Tutte storie lontane dal binomio donne spezzacuori/ubriacature moleste di eroi di frontiera che popolava il 90% delle canzoni partorite dall’industria discografica di Austin.


“…un muto, soffocante e puzzolente fumo, o qualcosa’altro di disperato, provinciale e banale.”

Alla fine di uno dei soliti concerti in cui si aveva difficoltà anche a far pronunciare correttamente il nome della band dai presentatori (Okkerut River, Occerville River, venne fuori di tutto), Sheff venne avvicinato da un giovane che gli disse “siete la cosa peggiore che io abbia mai sentito…ma so per certo che lo avete fatto apposta”. Jonathan Meiburg entrò nel gruppo così, grazie ad un insulto. In dote portava una perizia tecnica superiore, nata in ore e ore di studio ossessivo degli assoli di David Gilmour, ma anche la capacità di suonare più strumenti a corde, tastiere, percussioni…sembrava davvero che quel ragazzo potesse governare qualsiasi oggetto in grado di emettere suoni. Poi arrivò un articoletto sull’Austin Chronicle, uno di quei trafiletti bonari e compiacenti verso qualche giovane band, ma abbastanza preciso da captare l’attenzione di Brian Beattie, musicista che Will Sheff conosceva bene perché aveva registrato con Daniel Johnston, paladino di quella Austin più oscura che ovviamente lui aveva preso a modello. E’ nel garage di Beattie che è nato nel corso del 2000 Don’t Fall in Love with Everyone You See, esattamente quell’opera che nei sogni di Sheff gli avrebbe aperto le porte della riconoscenza del mondo musicale e soprattutto reso giustizia alla sua arte, esattamente come Simeonov voleva render giustizia alla dimenticata Vera. Ma qualcosa andò storto, Jeff inviò i nastri a tutte le case discografiche della zona, ma dopo un anno l’unica risposta semi-positiva l’aveva data la Jagjaguwar, interessata al prodotto ma con poche possibilità di pubblicarlo a breve. E così quelle nove canzoni restavano lì, nel cassetto, a sentirsi da sole e ad invecchiare come Vera. Ma Sheff credeva in quelle registrazioni, le aveva studiate e ristudiate, aveva deciso che Red (un triste valzer che narra di una madre che vede nei facili costumi e nella vita dissoluta della figlia i segni del proprio fallimento di genitore) avrebbe aperto le danze del disco, che il viaggio a ritmo di slow-country in cerca di cocaina e perdizione della coppia di Kansas City avrebbe continuato il tragico racconto, e che la sofferta Lady Liberty, ambigua tra il suo essere una canzone di amore irrisolto o una metafora politica, avrebbe impedito all’ascoltatore di rilassarsi veramente. Perché poi sarebbe arrivata My Bad Days, una mazzata emozionale, un rito funebre delle proprie paure, lenta, triste, quasi insostenibile nell’interpretazione rotta e piagnucolante della voce, e poi ancora Westfall, tesa murder-song vicina al country di Austin, dove l’amicizia di due ragazzi sembra essere l’unico movente possibile per il fatto che abbiano ucciso le ragazze appena rimorchiate, visto che quando i poliziotti guardano negli occhi uno dei protagonisti per cercarvi il male, scoprono quanto esso sia irriconoscibile e fortemente somigliante al nulla. Will aveva frenesia di far conoscere al mondo il suo lavoro a due voci con il mito Daniel Johnston (Happy Hearts), la corsa dei mandolini di Dead Dog Song, e si rifiutava di lasciare nell’oblio una canzone come Listening to Otis Redding at Home During Christmas, dove al verso “casa è dove i letti sono fatti e il burro è spalmato sul toast”, fa eco un Will che ribadisce che no, casa è dove nello stereo risuona I’ve Got Dreams To Remember di Otis Redding. Il finale del disco era invece affidato ad Okkervil River Song, non la storia del racconto della Tolstaya, ma un triste ricordo di bei momenti passati sul fiume con una donna che al risveglio non c’è già più. Troppa tristezza forse? Eppure in quegli anni la musica non esprimeva certo gioia neppure alla radio, il gruppo più acclamato della fine degli anni 90 erano stati i Radiohead, che avevano insegnato al mondo a sondare le tragedie personali senza alcuna remora stilistica, e le cose più rassicuranti che uscivano dal mondo del nuovo folk erano i gruppi soft-core come Belle & Sebastian o Arab Straps, musica molto melodica che faceva della malinconia il proprio dardo infuocato. Ma quel mezzo folk mezzo country mezzo non-so-chè degli Okkervil River non aveva senso per nessuno, e quando nel settembre del 2001 Will vide le torri di Ground Zero cadere in una massa di fumo e fuoco, la sensazione che la tragica realtà non potesse più essere sublimata da nessuna arte lo mandò in depressione totale.
Nel gennaio del 2002 finalmente la Jagjaguwar trovò spazio per il disco nel suo catalogo, senza dannarsi troppo nella promozione. Don’t Fall in Love with Everyone You See vendette poco in proporzione alle positive recensioni che ricevette, per cui via a squallidi tour con notti passate per terra e tanti concerti senza paga se non la birra e la bistecca di sopravvivenza. Una vita che Seth Warren decise di abbandonare, mentre Sheff e Mellburg passavano le ore a scrivere canzoni e a scambiarsi idee artistiche, un’intesa che aveva bisogno di uno sfogo personale per Jonathan, che chiese all’amico di fondare un progetto parallelo che battezzarono in quell’estate del 2001 con il nome di un uccello marino, Shearwater.


Suonò alla porta di Vera. “Pazzo” gli disse il suo diavoletto sulla sinistra.

La Jagjaguwar fu comunque soddisfatta dei risultati e per il secondo capitolo spedì la band a San Francisco a cercare ispirazione e suoni giusti. Sheff si sentiva ora davvero come Simeonov, che incurante dei pericoli che la coscienza gli evidenziava, si reca a casa di Vera per vedere se davvero il suo mito era così malridotto, immaginandola romanticamente abbandonata nella propria arte, accantonata dall’ignoranza comune, incapace di leggere nei solchi dei suoi vinili la sublimazione massima del suono dell’amore. Il risultato delle sessions, registrate con la nuova formazione a quattro comprendente Meiburg, fu il disco Down The River Of The Golden Dreams, album indolente e melmoso come le acque dell’Okkervil River descritte dalla Tolstaya. Il titolo divenne fin da subito un nuovo caposaldo dell’indie-rock, definizione che nel 2003 aveva ormai assunto una consolidata connotazione. Il disco era perfettamente dosato tra il suo essere sofferto fin dalla micidiale accoppiata iniziale It Ends With A Fall e For The Enemy, ma musicalmente presentava un inedito “wall of sound” che aveva perso tutto il folk minimale degli esordi in favore delle maestose aperture strumentali di Blanket And Crib, fatte di organi hammond, fiati, archi. Mancavano giusto i cori femminili perché si potesse tranquillamente parlare di una nuova via lo-fi del Phil Spector-pensiero. Anche la scrittura di Sheff era cresciuta vertiginosamente, capace di toccare vette letterarie come The War Criminal Rises And Speaks, sorta d’imparziale processo ad un carnefice, visto sia con gli occhi di chi racconta che del criminale stesso, che invita a considerare la sua situazione umana prima di giudicare.  In ogni caso tutto suona maturo, anche la nuova versione di The Velocity Of Saul At The Time Of His Conversion, non più sofferta e urlata come sul disco d’esordio, ma tranquilla e ragionata, oltre che impercettibilmente più arrangiata. Nonostante il grande dispiego di session men e strumenti, non c’era comunque nessuna concessione alla spettacolarità, brani come Dead Faces o Maines Island Lovers richiedevano un ascolto attento sia alle liriche sempre piene di trabocchetti e sensi nascosti, sia alle contorte trame sonore, raramente orecchiabili fin da subito (solo Song About A Star ricorreva ad un ritornello realmente riconoscibile al primo ascolto). Un disco inviluppato nel suo esistenzialismo (Yellow), ma meravigliosamente dosato in ogni sua componente, anche quelle inevitabilmente più melodrammatiche e auto-compiacenti (Seas Too Far To Reach).



“O beata solitudine! La solitudine mangia direttamente dalla padella, trafigge una fredda polpetta di carne direttamente da un sudicio mezzo vasetto, fa il tè direttamente nella tazza, insomma…Pace e Libertà!”

Ormai riconosciuti dalla critica e già eletti a gruppo cult dalle nuove generazioni, gli Okkervil River nel 2005 licenziano la loro opera più ambiziosa, Black Sheep Boy. Libero di muoversi artisticamente, Sheff allarga la formazione a sei elementi, e utilizza un personaggio uscito dalla penna del cult-songwriter Tim Hardin per dar vita ad una sorta di concept che unisce tante storie diverse, dove è sempre comunque centrale la figura di una “pecora nera”, ragazzi frustrati (For Real), depressi (In a A Radio Song), o anche abusati (Black). Mai come in questo disco il mondo di Sheff si popola di freaks che non sono solo quelli della tetra copertina di William Schaff, ma anche personaggi che manifestano sempre un’impossibilità di amare che spesso è forzata da una realtà che non li accetta, come nel brano A Stone (ma il finale rivelatorio della storia sarà nel brano Song Of Our So-Called Friend), dove anche il classico triangolo da tragedia lui-ama-lei-ma-lei-ama-un-altro si trasforma in una grottesca storia degna di un film di Tim Burton, dove lei, piuttosto che amare lui, ama un altro ormai morto e ridotto a pietra tombale. Forte poi anche di un EP chiamato Appendix che nelle successive riedizioni renderà l’opera doppia e forse fin troppo monumentale, Black Sheep Boy musicalmente riusciva a tenere un perfetto equilibro tra le sue atmosfere dark e deprimenti e la grandeur di strumenti e muri del suono, quasi che Sheff abbia realizzato con successo e con 28 anni di ritardo quanto Leonard Cohen e Phil Spector avevano rovinosamente tentato di fare con l’album Death Of A Ladies Man. Le reazioni della critica furono entusiaste, anche se il disco si rivelò ostico e contribuì a dare alla band la fama di indie-band per intenditori di nicchia.


“Vera Vasilevna è morta, morta da tanto tempo, uccisa, smembrata e mangiata da questa vecchia signora”

Simeonov alla fine del racconto scopre che il suo mito Vera è diventata una patetica signora, ancora circondata da adulatori e uomini piccoli che le ricordano quotidianamente la propria antica grandezza. Una scena squallida che fa capire la differenza tra mito e realtà, il tradimento finale della star rispetto al fan che viveva “nella” e “per la” sua immagine. Sembrò quasi logico dunque il “tradimento” operato con il successivo The Stage Names, senza dubbio il disco più accessibile e public-friendly della band, concepito da Sheff proprio per essere un altro lungo concept sul quanto l’arte abbia saputo produrre allo stesso tempo opere durature o immense patacche, e dunque su quanto i “nomi d’arte” del titolo non mettano al riparo le star dalle miserie della vita (Our Life Is Not A Movie Or Maybe è il significativo titolo che apre l’album). La girandola di stili che anima l’album è stordente, dalla lunga Girl In Port che strizza l’occhio a Van Morrison ad una A Hand To Take Hold of The Scene che mette in vetrina addirittura riff da rock-band, e altrove ancora influenze soul che cominciano ad allontanare la band del freak-folk a cui venivano generalmente associati. Tantissimi i riferimenti ad opere musicali: John Allyn Smith Sails richiama nel finale Sloop John B dei Beach Boys, il titolo del brano You Can’t Hold the Hand of A Rock And Roll Man ruba un verso di Blonde in the Bleachers di Joni Mitchell, Plus Ones è una sorta di gioco a comporre un testo con titoli di altre canzoni aggiungendoci un uno ad ogni numerazione (ad esempio: TVC15 di Bowie diventa TVC16, le 96 Tears dei ? & The Mysterians qui sono 97, ecc..) Ma anche reminiscenze letterarie (Title Track è ispirata dal libro scandalo Hollywood Babylon di Kenneth Anger), cinematografiche (Savannah Smiles è la storia della nota pornostar Savannah, A Hand to Take Hold of the Scene descrive le loro esperienze nel mondo delle serie TV) e tanto altro che ogni fan possa sbizzarrirsi a svelare. Una girandola di riferimenti volutamente volta a non dividere bello da brutto, arte da spazzatura, che trova la sua sublimazione anche nell’appendice al disco, che stavolta non esce come compendio, ma sottoforma di vero e proprio album a sè stante con il titolo di The Stand-ins (ma con disegno di copertina che completa quella di The Stage Names, a testimonianza della stretta parentela), con altre riflessioni sulla vita da artista e rock-band (Singer Songwriter, On Tour With Zykos e una Lost Coastlines che chiama a duettare l’amico - e ormai sempre più dedicato al progetto Shearwater - Jonathan Meiburg su un testo che parla proprio delle difficoltà di rimanere nella stessa band con i tanti impegni diversi presi), finali di storie precedentemente iniziate (Starry Stairs racconta del suicidio della stessa Savannah di Savannah Smiles) e storie di rockstar mancate e dimenticate (Bruce Wayne Campbell Interviewed on the Roof of the Chelsea Hotel, 1979, sullo sfortunato glam-rocker Jobriath). La critica sui due dischi comincia a dividersi, ma vendite e popolarità garantiscono finalmente a Sheff e soci un futuro più sicuro.

“Ancora uno!”

Le storie di Simeonov e Sheff hanno un finale diverso: il primo alla fine smette di vivere di sogni esattamente come il secondo, il quale ha avuto però migliore fortuna, ha trovato la sua Vera nella figura di Rory Erickson, anche lui rockstar decaduta, ma con ancora dentro tanta musica da comunicare e quella grandiosità artistica che Simeonov sperava di trovare nella sua diva. Erickson invece, grazie a Sheff e agli Okkervil River, pubblica il disco migliore della sua carriera (True Love Cast Out All Evil) e dimostra che forse è proprio la lucida follia del vecchio leader dei 13th Floor Elevators l’unico vero tratto distintivo dell’artista in grado di preservarlo dalle miserie quotidiane tipiche dell’uomo comune. Per Sheff è dunque stato tempo di una lunga pausa, per ripartire con una nuova maturità, una verginità persa, e un disco adulto e concreto come I Am Very Far, che è l’inizio di una storia nuova e completamente diversa da quella nata in quel college dello New Hampshire. Una storia in cui i sogni infranti di Simeonov non sono più previsti.
Nicola Gervasini


I brani in corsivo sono tratti dal racconto “Okkervil River” di Tatyana Tolstaya, dal libro “White Walls”, Ed. Nyrb (mai tradotto in Italia).

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